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Conclusione
Altri dopo di me si
occuperanno della letteratura concentrazionaria:
su questo non c'è dubbio. Forse
batteranno la stessa strada e, spingendo oltre
l'indagine, si limiteranno ad arricchire
l'argomentazione. For-se adotteranno un'altra
classificazione ed un altro metodo. Forse
daranno più importanza al lato puramente
letterario. Fors'anche, qualche nuovo Norton Cru
, (1) ispirandosi a ciò che fece l'altro
a proposito della letteratura di guerra
all'indomani del 1914-1918, presenterà un
giorno una "somma" critica, sotto tutti i
profili e sotto tutti gli aspetti, di tutto
ciò che è stato scritto sui campi
di concentramento. Forse...
Non avendo io avuta
altra ambizione fuor che di aprire la via a un
esame critico, il mio sforzo non poteva
limitarsi a certe osservazioni essenziali,
doveva portarsi, in primissimo luogo, sul punto
di partenza della questione, cioè sulla
materialità dei fatti. Se si vale
soltanto di qualche caso tipo, che ho la
debolezza di credere giudiziosamente scelto,
esso nondimeno abbraccia tutta la vita
concentrazionaria attraverso i suoi punti
sensibili e permette al lettore di farsi
un'opinione su tutto ciò che ha potuto
leggere o leggerà sull'argomento. Sotto
questo rapporto, il suo scopo è
raggiunto.
Di riflesso, può
raggiungerne altri.
E uscito recentemente
un libro che non si inserisce direttamente
nell'attualità e sul quale perciò
la critica non ha creduto di doversi soffermare
in modo particolare: Ghetto à
l'Est. Il suo autore, Marc Dvorjetski,
sopravvissuto ad un certo numero di massacri, si
tira die-tro un passato che egli sente tanto
più pesante in quanto la sua coscienza
gli chiede di continuo: Su, parla: come hai
fatto a restare vivo quando milioni di esseri
sono morti?» La coscienza dei testimoni dei
campi di concentramento non sembra avere di
queste esigenze e non pone loro domande tanto
indiscrete. Ma non si sfugge facilmente a una
domanda che è nella natura delle cose e,
se la coscienza individuale non la fa salire
spontaneamente alle labbra degli interessati
sotto forma di rimprovero, c'è il
pubblico che è lì, che non ha se
non rari momenti di benevolenza e che la pone
sotto quella di un'interrogazione diretta: Su,
parla: come fai ad essere ancora vivo?...»
Mi si scuserà se ho l'impressione di aver
fornito la risposta.
Tutto è
concatenato: una domanda ne chiama un'altra, e
quando il pubblico comincia a farne... Un
come porta sempre con sé un
perché quando non lo segue e, nel
caso specifico, questo si presenta nel modo
più naturale: perché certi
deportati hanno dato alle loro deposizioni una
piega così discutibile? Quì, la
risposta è più delicata: per
distinguere tra quelli che sono stati dominati,
perfino schiacciati, dall'esperienza che hanno
vissuta e quelli che hanno obbedito a moventi
politici o personali, occorrerebbe
psicanalizzarli -- dato che si è
pronunciata questa parola... -- tutti, e si
dovrebbe, inoltre, affidare questo lavoro
soltanto a specialisti sperimentati.
Si può affermare
tuttavia che i comunisti vi avevano un
indiscutibile interesse di partito: dal momento
in cui un cataclisma sociale si abbatte
sull'umanità, se i comunisti sono quelli
che reagiscono più nobilmente, più
intelligentemente e più efficacemente, il
beneficio dell'esempio ricade
sull'organizzazione e sulla dottrina che essa
propugna. Essi vi avevano anche un interesse
politico alla scala mondiale: fermando
l'opinione pubblica sui campi hitleriani, le
facevano dimenticare i campi russi. Vi avevano,
infine, un interesse personale: prendendo
d'assalto il banco dei testimoni e gridando
molto forte, evitavano il banco degli
accusati.
Là come
dappertutto, essi hanno dato l'esempio di una
solidarietà a tutta prova e il mondo
civile ha potuto fondare tutta una politica nei
riguardi della Germania su conclusioni che esso
traeva da informazioni fornite da volgari
guardaciurme. Del resto, non chiedeva di meglio,
a quel tempo, il mondo civile: così
poteva presentare le proprie ciurme come modelli
di umanità...
Per i non-comunisti
è differente, e non vorrei pronunciarmi
alla leggera. A fianco di quelli che non hanno
capito l'avventura che hanno vissuto ci sono
quelli che hanno creduto davvero alla
moralità dei comunisti, quelli che hanno
sognato un'intesa possibile con la Russia dei
Soviet per il raggiungimento di una pace
mondiale, fraterna e giusta nella
libertà, quelli che hanno pagato un
debito di riconoscenza, quelli che hanno seguito
il vento della stagione e detto certe cose
perché quella era la moda, ecc. Ci sono
pure quelli che hanno pensato che il comunismo
avrebbe sommerso l'Europa e, avendolo visto
all'opera nei campi di concentramento, hanno
giudicato prudente prendere qualche precauzione
per l'avvenire.
Ancora una volta la
storia si è fatta beffe delle piccole
imposture a misura dell'immaginazione umana. Ha
seguito il suo corso, e adesso, bisogna
adattarvisi. I voltafaccia non sono facili e
operarli non sarà cosa da
poco.
Rimane da fissare
l'importanza dei fatti nella loro
materialità e da giudicare
l'opportunità di questo lavoro. In un
articolo (2) che fece sensazione, (3) Jean-Paul
Sartre e Merleau-Ponty hanno potuto scrivere:
a leggere le
testimonianze di ex detenuti, non si trova
nei campi sovietici il sadismo, la religione
della morte, il nichilismo che --
paradossalmente congiunti a precisi interessi
e con essi ora d'accordo, ora in lotta --
hanno finito per produrre i campi di
sterminio nazisti.
Se si accetta la
versione resa ufficiale da una unanimità
complice sui campi tedeschi, bisogna convenire
che Sartre e Merleau hanno ragione contro David
Rousset. Si vede allora dove tutto ciò
può condurre tanto nel giudizio sul
regime russo quanto nell'esame del problema
concentrazionario in sé. Questo non vuol
dire che, se non la si accetta, si dà
perciò stesso ragione a David Rousset: la
caratteristica dei fatti discutibili nel loro
contenuto è, precisamente, che non sono
suscettibili di interpretazioni
valide.
La migliore conclusione
che potevo dare a questo lavoro è lo
sguardo d'insieme che a quell'epoca mi era stato
suggerito dal confronto dei punti di vista di
David Rousset e di J.-P. Sartre e Merleau-Ponty,
con la mia personale esperienza . (4)
Eccolo:
Si possono opporre a
David Rousset gli argomenti concreti della
ragione pratica. Essi sono molto accessibili
perché si risolvono nel l'affermazione
che il suo Appel non ha particolare
valore né per la sua origine, né
per il suo contenuto, né per le strade
che prende a prestito, né per le persone
alle quali si indirizza, né per lo scopo
che persegue, né, soprattutto, per quel
che se ne può sperare o temere, a seconda
del punto di vista in cui ci si pone. Di fatto,
nessun settore dell'opinione pubblica si
è lasciato ingannare: l'iniziativa fa
dietrofront e, due mesi dopo, (5) non gode
più del favore di nessuno fuorché
di quello de Le Figaro Littéraire»,
(6) vale a dire l'udienza di 100.000 lettori, di
cui alcuni saranno, immagino, discretamente
disincantati.
Se si ricorre alla
ragion pura e se si solleva l'obiezione
filosofica o dottrinale, si cade nella retorica
e si diventa molto vulnerabili. La retorica
tende facilmente al sofisma, al cavillo, perfino
alla divagazione. Le sue civetterie, sempre
discutibili per seducenti che siano, di rado
sono convincenti. E le sue astrazioni
esclusivamente speculative tanto meno
corrispondono alle cose reali quanto più
procedono da metodi rigorosi.
Così, le ragioni
del senso comune hanno un diverso peso da quelle
della Scolastica, benché siano di minor
valore nell'assoluto o
nell'intrinseco.
L'irruzione chiassosa
di David Rousset sul proscenio con il suo In
aiuto dei deportati sovietici, titolo su
otto colonne in prima pagina ne Le Figaro l
ittéraire», ha strane risonanze. La
sua forma è quella di tutte le adunate
guerriere: in aiuto della Polonia martire, in
aiuto dei Sudeti, in aiuto del popolo tedesco
oppresso (1939), in aiuto della sventurata
Serbia (1914), ecc. Si potrebbe risalire fino
alla prima Crociata che Pietro l'Eremita
predicò negli stessi termini prendendo
come tema centrale il Sepolcro di Cristo. Dato
il numero dei concentrazionari nel mondo, in
Grecia, in Spagna, in Francia -- gli Stati Uniti
ne sono esenti? -- , come pure in Russia, il suo
carattere restrittivo è flagrante. La
doppia prevaricazione è evidente e gli
spiriti avvertiti non hanno mancato di
osservarlo. Era sufficiente sottolinearlo per
gli altri.
Coglier l'occasione per
porre il problema del lavoro forzato
dappertutto, e specialmente nelle colonie,
significa allargare il dibattito, cosa che,
evidentemente, non può essere
pregiudizievole, tutt'altro. Discutere di tutto
il sistema russo o di tutto il sistema americano
è già un farlo deviare. Andare
fino alle differenze che li mettono in
contrasto, ai rapporti che intrattengono e
all'ingiustizia sociale in generale, significa
trasporlo su un altro terreno e nulla ormai
impedisce che esso vada a perdersi, come l'acqua
nella sabbia, in dissertazioni senza fine sulla
terza guerra mondiale o sulle classi dei
viaggiatori in ferrovia. Dal che sembra
dimostrato che, se l'argomento non ammette
alcuna localizzazione geografica, ve ne è
almeno una che s'impone: quella che ne fa
esclusivamente una questione di deportazioni, di
campi di concentramento e di lavoro
forzato.
Nel quadro di queste
considerazioni che situano ai loro due estremi i
limiti della controversia, non è forse
indifferente soffermarsi anzitutto sugli aspetti
della risposta che rafforzano la posizione di
David Rousset invece di indebolirla.
Senza dubbio alcuno, la
psicosi creata in Francia dopo la liberazione da
certi racconti discutibili in quanto sono, per
lo più, delle interpretazioni assai
più che delle testimonianze, permette di
scrivere all'incirca impunemente: a leggere le
testimonianze di ex detenuti, non si trovano nei
campi sovietici il sadismo, ecc. ecc.
Ma essa non assicura la
tranquillità della coscienza se non a
coloro il cui atteggiamento è
generalmente anteriore ad ogni riflessione e che
per sovrappiù non hanno vissuto né
l'una né l'altra delle due esperienze. Da
una parte, non può sfuggire che in
Francia e nel mondo occidentale gli scampati dei
campi sovietici sono molto meno numerosi di
quelli dei campi nazisti e che, anche se non si
può dire che le loro testimonianze sono,
a priori, ispirate da una maggior buona
fede o da un senso più accettabile
dell'obiettività, è tuttavia
innegabile che vedono la luce in tempi
più sani. Dall'altra parte, tutti i
concentrazionari che hanno vissuto nella
promiscuità dei russi in Ger-mania hanno
riportato la convinzione che questa gente aveva
una lunga pratica della vita dei
campi.
Da parte mia, mi sono
trovato per sedici mesi in mezzo a qualche
migliaio di ucraini nel campo di concentramento
di Dora: il loro comportamento affermava che,
nella grandissima maggioranza, avevano soltanto
cambiato di campo e, nei loro discorsi, essi non
nascondevano che il trattamento era lo stesso
nell'uno e nell'altro caso. Debbo dire che il
libro di Margarete Buber-Neumann, uscito
recentemente, non contraddice questa
osservazione personale? Per ciò che
riguarda il resto, bisogna lasciare alla storia
la cura di dire come i campi tedeschi, concepiti
anch'essi secondo le formule di un socialismo
edenico», siano diventati di fatto -- ma
soltanto di fatto -- dei campi di
sterminio.
La realtà su
questo punto è che il campo di
concentramento è uno strumento di Stato
in tutti i regimi nei quali l'esercizio della
repressione garantisce quello
dell'autorità. Da un paese all'altro, tra
i diversi campi vi sono soltanto differenze di
sfumatura che si spiegano con le
circostanze, ma non di essenza. In Russia
essi somigliano in ogni dettaglio a quello che
erano nella Germania hitleriana e verosimilmente
a quello che sono in Grecia, perché,
indipendentemente dalle somiglianze possibili o
no di regime, in tutti e tre i casi lo Stato
è alle prese con delle difficoltà
di eguale grandezza: la guerra per la Germania,
lo sfruttamento della sesta parte del globo con
mezzi di fortuna per la Russia, la guerra civile
per la Grecia.
Se la Francia
arriverà, economicamente, allo stesso
punto della Germania del 1939 o della Russia e
della Grecia di oggi -- cosa che non è
esclusa -- , Carrère, La Noé, La
Vierge, ecc. somiglieranno, essi pure, in ogni
dettaglio, a Buchenwald, a Karaganda e a
Makronissos: del resto, non è provato che
la sfumatura sia più che appena
percettibile già oggi. (7)
L'errore chiama
l'errore e prolifica con l'artificio in un
ragionamento viziato alla base da una prima
affermazione gratutita. Dal particolare si passa
al generale e dall'esame dell'effetto a quello
della causa. Così è naturale che
si arrivi a scrivere, a proposito del sistema
russo:
Quale che sia
la natura dell'attuale società
sovietica, l'URSS si trova grosso modo
situata, nell'equilibrio delle forze, dalla
parte di quelli che lottano contro le forme
di sfruttamento da noi conosciute,
o anche:
Il fascismo
è un'angoscia davanti al bolscevismo
di cui riprende la forma esteriore per
distruggerne più sicuramente il
contenuto: la Stimmung
internazionalista e proletaria. Se se ne
conclude che il comunismo è il
fascismo, si appaga a cose fatte il voto del
fascismo, che è sempre stato quello di
mascherare la crisi capitalistica e
l'ispirazione umana del marxismo,
o infine:
Ciò
significa che non abbiamo nulla in comune con
un nazista e abbiamo gli stessi valori di un
comunista.
La prima obiezione
è senza valore. Una parte importante
dell'opinione pubblica, rovesciandola nei suoi
termini prima ancora che la si enunciasse,
pensava già che:
Quale che sia
la natura della società
americana, gli Stati Uniti si trovano
grosso modo situati, nell'equilibrio
delle forze, dalla parte di quelli che
lottano contro le forme di sfruttamento a
noi conosciute...
E, per giustificarsi,
aggiungeva:
...comportandosi
in maniera tale che le altre siano sempre
meno sensibili.
Si vede il pericolo: se
è ammesso che le forme di sfruttamento
a noi sconosciute» sono più
assassine e più numerose di quelle che
godono del privilegio di essere da noi
conosciute», se si può provare
che le prime sono in progressione costante e le
seconde in regressione o semplicemente a un
livello costante, bisogna convenire che questa
importante frazione dell'opinione pubblica
è abbondantemente provveduta nella sfera
della giustificazione morale. Essa lo è
tanto più in quanto non fa altro che
trarre i suoi argomenti da uno dei firmatari
dell'obiezione, Merleau-Ponty, il quale
scriveva, nella sua tesi su L'umanesimo e il
terrore, all'incirca questo, che cito a
memoria:
Ciò
che può servire di criterio nella
valutazione di un regime sul piano
dell'umanesimo non è il terrore o la
sua manifestazione, la violenza, ma il fatto
che l'uno e l'altra siano in progressione e
destinati a durare, o, al contrario, in
regressione e destinati a sparire da
soli.
Perché
ciò che è vero del terrore e della
violenza non lo sarebbe dei campi, che non sono
se non uno dei loro risultati, ma che con il
loro numero testimoniano del maggiore o minore
terrore e della maggiore o minore violenza? E,
dunque, perché questo distinguo in favore
della Russia? Questo per permettere di misurare
quanto sarebbe stato, insieme, più
prudente e più conforme alla tradizione
socialista essere più coerenti di David
Rousset dichiarandosi contro tutte le forme di
sfruttamento, ci siano esse conosciute o
sconosciute.
La seconda obiezione,
introdotta sotto la forma del sillogismo
perfetto, muove dalla confusione dei termini: Il
fascismo è un'angoscia davanti al
bolscevismo», dice la maggiore -- Se
se ne deduce che il fascismo è il
comunismo», prosegue la minore...
Sotto la penna di un retore di second'ordine,
l'astuzia provocherebbe tutt'al più
un'alzata di spalle. Quando la si trova sotto
quelle di Merleau-Ponty e di Sartre, non si
può fare a meno di pensare alle regole
imperative della probità e alla
distorsione che è fatta loro. (8)
E il bolscevismo che i
suoi dispregiatori identificano con il fascismo,
non il comunismo. E, inoltre, lo fanno soltanto
nei suoi effetti e prendendo la precauzione di
definire il fascismo secondo caratteri che ne
fanno un'altra cosa, e molto più di
un'angoscia» dinnanzi al
bolscevismo.
Questo vuol dire che,
se si rimettono le due proposizioni sul piano
della proprietà dei termini, la
conclusione si annulla da sola e che, dunque,
del sillogismo non resta altro che la perfezione
della sua forma. Se si vuole a tutti i costi
costruire un sillogismo su questo tema, il solo
che sia valido è il seguente:
1) Il fascismo e il
bolscevismo sono un'angoscia davanti al
comunismo (o al socialismo) di cui riprendono le
forme esterne -- Hitler non parlava di
nazional-socialismo e Stalin non continua
a parlare di socialismo in un solo paese?
-- per distruggerne più sicuramente il
contenuto: la Stimmung internazionale e
proletaria.
2) Se ne conclude che
il fascismo e il bolscevismo sono il comunismo
(o il socialismo).
3) Si appaga a cose
fatte il voto del fascismo e del bolscevismo,
che è quello di camuffare la crisi
capitalistica e l'ispirazione umana del
marxismo.
Sillogismo che, se si
volesse rifiutare l'identificazione del fascismo
con il bolscevismo che esso pone apparentemente
come principio, richiamerebbe alle cose molto
sostanziali che, usando altre unità di
misura, James Burnham ne scrive nellL'
Ere des Organisateurs (ed. Cal
mann-Lévy, collez. La liberté de
l'esprit», p. 189 ss.).
Non dirò nulla
della terza obiezione che verosimilmente pecca
della medesima confusione dei termini,
ammenoché i suoi autori non precisino in
seguito che ciò che hanno voluto dire
è: noi abbiamo gli stessi valori di un
bolscevico». Non dirò nulla
nemmeno dell'affermazione stranamente inserita
nel dibattito secondo la quale il comunismo
cinese sarebbe il solo capace di far uscire la
Cina dal caos e dalla miseria pittoresca in cui
l'ha lasciata il capitalismo straniero».
Né della sottoscrizione aperta da Le
Monde» perché non fosse detto che
era insensibile alla miseria» di un operaio
comunista, né delle conversazioni
fruttuose che si possono avere con gli operai
della Mar tinica, né... Insomma,
perché non delle piramidi di Egitto o
della gravitazione universale?
A insistere troppo, si
finirebbe per cadere nella ricerca della
migliore diversione e per cedere alla tentazione
di scrivere una nuova Miseria della
filosofia (9) adatta alle
circostanze.
Rimane il dramma
dell'opinione radicale che non trova la
possibilità di interessarsi al problema
concentrazionario per la via di questa
controversia se non partecipando alla
preparazione ideologica della terza guerra
mondiale, se segue l'uno, o di tornare al
bolscevismo per la linea obliqua di un
concatenamento di sofismi, se segue gli
altri.
Le Figaro l
ittéraire» e David Rousset,
essendosi messi in posizione di
inferiorità tirando per primi, offrivano,
per sovrammercato, una eccellente occasione di
far accettare la controversia. Ma vi era qualche
possibilità di successo soltanto
rimanendo sul terreno che essi avevano scelto, e
cioè: il pretesto e i moventi.
Il pretesto è
una stupidaggine.Da una parte il Cremlino non
accetterà mai che una commissione
d'inchiesta sul lavoro forzato circoli
liberamente in territorio sovietico. Dall'altra,
nessun aiuto serio può essere recato ai
concentrazionari russi fino a che sussiste il
regime staliniano. Ora, io fondo la mia speranza
di vederlo sparire soltanto su tre
eventualità: o crollerà da solo
(questo si è visto già nella
storia: la Grecia antica era morta ancora prima
di essere conquistata dai Romani), oppure
sprofonderà in una rivoluzione interna,
oppure, infine, sarà annientato in una
guerra. Poiché la Russia è in
pieno sviluppo industriale e poiché
sembra limitare con grande padronanza le sue
ambizioni ai suoi mezzi, le due prime
eventualità sono irrimediabilmente
escluse per un lunghissimo periodo, resta
perciò soltanto la terza: molto poco per
me, ho appena finito di prenderle, e
l'esperienza che ci si vanta di aver compiuto
con tanto successo contro Hitler mi
basta.
Il fatto che David
Rousset estenda da poco tempo -- e specialmente
da quando gli è stata offerta una
colazione dalla stampa angloamericana -- la
missione d'investigazione degli inquirenti a
tutti i paesi dove possono trovarsi dei campi di
concentramento», non cambia nulla né
al carattere né al senso della faccenda:
c'è il titolo che rimane sul luogo del
delitto: In aiuto dei deportati sovietici.
D'altro canto, né la Grecia né
la Spagna -- e neppure la Francia! --
accetteranno che si vada a "spiare" da loro
sotto sembianza di inchieste sui lavori forzati.
Bisognerebbe che l'iniziativa partisse dall'ONU
e fosse appoggiata da minacce di esclusione per
coloro che non volessero sottomettersi, cosa che
non è concepibile, giacché non
resterebbe più nessuno, eccettuata forse
la Svizzera, che non ne fa parte.
Tutto ciò
è del resto assai spiacevole,
perché non si saprà mai in quale
posto e su quale superficie Le Figaro l
ittéraire» avrebbe reso conto dei
lavori della commissione d'inchiesta diretta ad
altri paesi che non la Russia.
Non si possono
discernere chiaramente i moventi se non si sa
che &laqno;Le Figaro littéraire»
è il giornale nel quale Claude Mauriac,
facendo la critica di un lavoro teatrale,
scriveva or è qualche tempo:
La tortura,
l'occupazione, le deportazioni, sono ancora
troppo vicine a noi perché ci sia
possibile parlarne con il tono
dell'obiettività ( Ottobre
1949).
Il che, in parole
povere, significa: si può dire tutto quel
che si vuole, se sono russi, un po' meno
(adesso!) se sono tedeschi, e niente del tutto
se sono greci, spagnoli o francesi.
Non li si può
discernere di più, i moventi, se non si
ha un'idea d'insieme sull'opera di David
Rousset. Ne L'Univers concentrationnaire
egli presentò i campi come dipendenti da
un problema di regime ed ebbe un meritato
successo. Poi, ne Les Jours de notre mort
e in numerosi altri scritti sparsi, egli si
dedicò soprattutto a mettere in evidenza
e a lodare il comportamento dei detenuti
comunisti, giurando su fatti non controllati e
che hanno potuto trovare nel pubblico
quell'immenso credito soltanto in ragione del
disordine e delle confusione originati dalla
guerra. Una volta si è arrischiato nel
documento puro, con la sua raccolta Le Pitre
ne rit pas, che chiama in causa solo la
Germania. Egli non poteva, tuttavia, ignorare i
campi russi, dei quali si dice che documenti
tradotti dal russo erano in vendita nelle
librerie negli anni 1935-1936 e la cui
esistenza, d'altronde, non ha potuto mancare di
essergli rivelata nei tempi ancora più
remoti in cui egli militava nelle file del
trotzkismo. Di deliberata volontà,
dunque, egli ha contribuito molto efficacemente
a creare, sul piano interno, questa atmosfera di
"vogliamoci bene", che ha permesso ai
bolscevichi, i cui misfatti in Russia venivano
attenuati o passati sotto silenzio, di salire al
potere in Francia. Sul piano esterno, ha
soprattutto approfondito ancora un po' di
più il fossato tra la Francia e la
Germania.
Scoprendo i campi russi
nella maniera che sappiamo, egli non fa altro
che seguire il movimento di traslazione laterale
che è la caratteristica della politica
governativa dopo la partenza della squadra di
Thorez. Il suo atteggiamento di oggi è la
conseguenza logica di quello di ieri ed era
naturale che, avendo fornito un argomento al
tripartitismo bolscevizzante , (10) egli
fornisca agli angloamericani la base ideologica
indispensabile per una buona preparazione alla
guerra. Non er a meno naturale che Le Figaro l
ittéraire» e David Rousset finissero
per incontrarsi. Basta osservare che, l'uno
portando l'altro, il loro intervento concertato,
venendo dopo le testimonianze di Victor Serge,
Margarete Neumann, Guy Vinatrel, Mon ami
Vassia, ecc., non reca niente al dibattito,
non porta niente di nuovo fuori che, una volta
di più, una testimonianza su avvenimenti
non vissuti e non fa che registrare il
fallimento di una politica a profitto di
un'altra che, anch'essa, farà
immancabilmente fallimento, se non ai nostri
occhi, almeno davanti alla storia.
A questi elementi di
suspicione che dipendono, il primo dal
machiavellismo di un giornale, il secondo
dall'attitudine di un uomo a modellare il suo
comportamento sui desideri dei padroni del
momento nei differenti universi che volta a
volta lo annoverano tra i loro sudditi, si
aggiungono quelli che risultano dall'esperienza.
Nel 1939 e negli anni precedenti furono messe
nello stesso modo in rilievo le angherie della
Germania hitleriana. Sulla stampa non si parlava
d'altro. Tutto il resto lo si dimenticava:
nessuno dubitava che si preparasse
ideologicamente la guerra per la quale ci si
credeva pronti materialmente.
Difatti, la guerra si
fece...
Oggi, in tutta la
stampa non si parla d'altro che delle angherie
della Russia sovietica sul piano dell'umanesimo,
ed esclusivamente di quelle della Russia
sovietica. Si dimentica tutto il resto, e
principalmente i problemi posti dalla pratica
estensibile all'infinito del campo di
concentramento come mezzo di governo. Le stesse
cause producendo gli stessi effetti.
L'opinione radicale,
disincantata da quasi tutto quello che le
è stato detto dei campi tedeschi, dalla
forma nella quale, da una parte e dal-l'altra,
le vengono presentato i campi russi e dal
silenzio che si mantiene sugli altri, ha la
percezione di tutte queste cose e sembra
aspettare che, facendogliele toccare con mano,
le si tenga il linguaggio
dell'obiettività.
Ora, in questa materia,
il linguaggio dell'obiettività non ha
bisogno né di molte precauzioni né
di molte parole. Il caso dei campi di
concentramento, del lavoro forzato e della
deportazione non può essere esaminato se
non sul piano umano e nel quadro della
definizione dei rapporti tra Stato e individuo.
In tutti i paesi i campi esistono in via
potenziale e sono là a mutare di
clientela a seconda delle circostanze e degli
avvenimenti. Tutti gli uomini ne sono minacciati
dovunque e per quelli che al presente vi sono
rinchiusi non vi è probabilità di
uscita se non nella misura in cui quelli che non
vi sono ancora siano destinati ad entrarvi a
loro volta.
E contro questa
minaccia che bisogna insorgere ed è il
campo stesso, in sé, che bisogna prendere
di mira, indipendentemente dal luogo dove si
trova, dagli scopi per i quali è
utilizzato e dai regimi che lo impiegano. Allo
stesso modo che come contro la prigione o la
morte. Ogni particolarismo, ogni azione che
indichi alla vendetta una nazione piuttosto che
un'altra, che tolleri il campo in certi casi,
esplicitamente o per omissione calcolata o non
calcolata, indebolisce la lotta individuale o
collettiva per la libertà, la devia dal
suo senso e ci allontana dallo scopo invece di
avvicinarci ad esso.
Da questo punto di
vista si misurerà un giorno il torto che
fu fatto alla causa dei diritti dell'uomo quando
la IV Repubblica ammise che i collaborazionisti,
o ritenuti tali, fossero chiusi in campi come lo
furono i non-conformisti del 1939 e i resistenti
all'occupazione.
Per impiegare questo
linguaggio bisogna evidentemente preoccuparsi
piuttosto poco di essere classificati tra gli
antistaliniani o tra gli antiamericani e bisogna
avere abbastanza controllo di sé per
separare nel proprio spirito tanto il regime
sovietico dalla nozione di socialismo quanto il
regime americano da quella di democrazia: che
uno dei due regimi sia meno cattivo dell'altro
è indiscutibile, ma ciò prova
soltanto che da un lato della Cortina di Ferro
lo sforzo da compiere sarà meno grande
che dall'altro... E non è una
fedeltà di ex deportati, la quale non
può se non porre l'opinione pubblica
davanti alla scelta da fare tra due posizioni
anti o tra due posizioni pro, che
bisogna invocare qui: è la fedeltà
di una élite alla sua tradizione, che
è di definirsi essa stessa attraverso la
propria missione, e non già di compiere
quella degli altri.
Mâcon, 15 maggio
1950
NOTE
1. Autore di Témoins.
2. Les Jours de notre vie, &laqno;Les
Temps Modernes», gennaio 1950.
3. ...au café de Flore (nota di
Albert Paraz).
4. Sotto il titolo Des raisons de la
philosophie aux impératifs du sens
commun, questo sguardo d'insieme era stato
indirizzato ai Temps Modernes» in risposta
all'articolo di Sartre e Merleau-Ponty e
naturalmente non era stato pubblicato.
Comunicato a Le Libertaire», lo è
stato nel numero del 9 febbraio e La
Révolution prolétarienne» ne
ha riprodotto larghi brani.
5. Scritto il 10 gennaio 1950.
6. In prosieguo, il Le Figaro l
ittéraire», a sua volta, ha messo la
sordina. In definitiva, il solo profitto
dell'operazione pare essere... la Legion d'Onore
attribuita a David Rousset -- al merito
militare, se permettete!
7. Soprattutto se si prende per unità di
misura il comportamento della Francia nelle
colonie, dove, dopo gli ultimi avvenimenti
dell'Indocina e dell'Africa del Nord, nessuno
è abbastanza temerario da osare
più di affermare che la polizia e
l'esercito francesi si comportino molto
differentemente da come la polizia e l'esercito
tedeschi si comportavano in Francia nei
confronti dei resistenti durante gli anni
più terribili dell'occupazione (nota
dell'autore per la seconda edizione e le
successive).
8. No, se si legge L'Agité du Bocal
(nota di Albert Paraz). -- L'Agité
du Bocal è una breve et violentissima
riposta di Louis-Ferdinand Céline ad una
tipica calùnnia di Sartre.
[ndt].
9. Riferimento alla celebre opera di Marx contro
Proudhon [ndt].
10. Allusione alla formula di governo adottata
in Francia nell'immediato dopoguerra
[ndt].
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