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La
letteratura concentrazionaria
Venuto il momento di
mettere l'esperienza degli altri, quale essi
dicevano di averla vissuta, su una linea
parallela alla mia, mi trovai in una
disposizione di spirito che il lettore
capirà facilmente .
Anche al campo tutte le
conversazioni che i rari istanti di tregua ci
permettevano erano concentrate su tre argomenti:
la probabile data della cessazione delle
ostilità e le probabilità che
avevamo individualmente o collettivamente di
sopravvivere, le ricette di cucina» per i
giorni immediatamente futuri, e quelli che si
potrebbero chiamare i pettegolezzi» del
campo, se la parola avesse qualche rapporto con
la tragica realtà che stava ad indicare .
Nessuno dei tre argomenti ci offriva grandi
possibilità di evasione dalla condizione
del momento. Al contrario, tutti e tre,
separatamente o insieme, a seconda del tempo del
quale disponevamo per fare il giro del nostro
ristretto universo, al minimo tentativo di
evasione ci riportavano alla nostra condizione,
con la velata allusione di un Quando si
racconterà questo... », pronunciata
con un tale tono e puntualizzata negli sguardi
da un tale bagliore che ne rimanevo spaventato.
Confessando in qualche modo la mia impotenza a
combattere, al di sopra dell'ambiente, queste
rapide crisi di coscienza, mi ripiegavo su me
stesso trasformandomi in testimone ostinatamente
silenzioso.
D'istinto mi sentivo
riportato all'indomani dell'altra guerra, ai
vecchi combattenti, ai loro racconti e a tutta
la loro letteratura . Senza dubbio, questo
dopoguerra avrebbe avuto, in sovrappiù,
dei vecchi prigionieri e vecchi deportati che
avrebbero fatto ritorno ai loro focolari
domestici con ricordi ancora più orrendi.
Vedevo la via libera all'anatema e allo spirito
di vendetta. Nella misura in cui mi era
possibile distaccare la mia sorte personale dal
grande dramma in corso, tutti gli Armagnacchi e
tutti i Borgognoni della storia, riprendendo le
loro contese dal principio, si mettevano a
ballare davanti ai miei occhi una sarabanda
sfrenata, in uno scenario ingrandito a scala
europea. Non arrivavo ad immaginare che questa
tradizione di odio che vedevo nascere proprio
sotto i miei occhi potesse venire arginata,
quale che fosse l'esito del
conflitto.
Se cercavo di misurarne
le conseguenze, mi bastava pensare che avevo un
figlio per arrivare, non solo a domandarmi se
non sarebbe stato meglio che nessuno tornasse,
ma anche a sperare che le istanze superiori del
III Reich si rendessero presto conto che non
potevano più ottenere perdono se non
offrendo, in un immenso e terribile olocausto,
ciò che restava della popolazione dei
campi, in redenzione di tanto male . In questa
disposizione di spirito, avevo deciso che, se
fossi tornato, avrei dato per primo l'esempio: e
giurai di non far mai la minima allusione alla
mia avventura.
Per un tempo che anche
a distanza mi sembra molto lungo mantenni la
parola: e non fu facile .
Prima dovetti lottare
contro me stesso . A questo proposito non
dimenticherò mai una manifestazione che,
nei primissimi tempi, i deportati avevano
organizzato a Belfort per celebrare il loro
ritorno. Tutta la città si era scomodata
per venire a sentire e raccogliere il loro
messaggio. La sala immensa della Casa del Popolo
era piena come un uovo. Davanti, la spianata era
nera di folla. Era stato necessario sistemare
degli altoparlanti perfino nelle strade. Lo
stato della mia salute non mi aveva permesso di
assistere a questa manifestazione né come
oratore né come ascoltatore e il mio
dispiacere era grande. Fu più grande
ancora l'indomani, quando i giornali locali
dettero la prova che con tutto ciò che
era stato detto era assolutamente impossibile
costruire un messaggio di una qualche
validità. Le apprensioni che avevo avuto
al campo erano giustificate. La folla, del
resto, non si lasciò ingannare: in
prosieguo mai più fu possibile riunirla
allo stesso scopo.
Dovetti anche lottare
contro gli altri . Ovunque andassi, si trovava
sempre, tra la pera e il formaggio o davanti
alla tazza di tè, una distinta pettegola
in cerca di emozioni rare o un amico benevolo
che credeva farmi cosa gradita attirando
l'attenzione su di me e portando la
conversazione sull'argomento: E vero che... ?
Crede lei che... ? Cosa pensa del libro di...
?». Tutte queste domande, quando non erano
ispirate da una curiosità malsana,
tradivano visibilmente il dubbio e il bisogno di
fare confronti. Mi infastidivano.
Sistematicamente tagliavo corto, cosa che non
mancava di provocare, alle volte, giudizi
severi.
Me ne rendevo conto e,
se accadeva che ne provassi risentimento, ne
facevo responsabili i miei compagni di sventura,
scampati come me, che non la finivano più
di pubblicare racconti spesso fantasiosi, nei
quali si atteggiavano volentieri a santi, a eroi
o a martiri . I loro scritti si ammucchiavano
sul mio tavolo come tante sollecitazioni.
Convinto che si avvicinassero i tempi in cui
sarei stato costretto ad uscire dal mio riserbo
e a fare io stesso in modo che i miei ricordi
perdessero il loro carattere di santuario
vietato al pubblico, mi sono sorpreso più
di una volta a pensare che le parole attribuite
a Riera, (2) secondo cui, dopo ogni guerra,
bisognerebbe uccidere senza pietà tutti i
vecchi combattenti, meriterebbero qualcosa di
più e di meglio della semplice sorte di
un paradosso.
Un giorno mi accorsi
che l'opinione pubblica si era formata un'idea
falsa dei campi tedeschi, che il problema
concentrazionario restava intatto nonostante
tutto quello che ne era stato detto e che i
deportati, anche se non godevano più del
minimo credito, avevano nondimeno contribuito
molto a sospingere la politica internazionale su
vie pericolose . La questione usciva dall'ambito
dei salotti. Ebbi ad un tratto la percezione
che, ostinandomi a tacere, mi sarei reso
complice di una cattiva azione. E, tutto d'un
fiato, senza alcuna preoccupazione di ordine
letterario, nella forma più semplice
possibile, scrissi il mio Passage de la Ligne
per rimettere le cose a posto e tentare di
portar la gente al senso dell'obiettività
e a una nozione più accettabile
dell'onestà intellettuale.
Oggi, gli stessi uomini
che hanno presentato i campi di concentramento
tedeschi al pubblico gli presentano quelli russi
tendendogli gli stessi tranelli . Da questa
impresa è nata fra David Rousset da una
parte, e Jean-Paul Sartre e Merleau-Ponty
dall'altra, una controversia nella quale tutto
non poteva essere che falso, dato che essa
poggia essenzialmente sul paragone tra le
testimonianze forse inattaccabili -- dico
forse -- dei reduci dai campi russi e
quelle, che assolutamente non lo sono, dei
reduci dai campi tedeschi. Senza dubbio, non
v'è alcuna possibilità di
riportare questa controversia sui binari che
avrebbe dovuto seguire. Il guaio è fatto:
gli antagonisti obbediscono a imperativi molto
più categorici di quanto lo sia la stessa
natura delle cose sulle quali
disputano.
Ma è permesso
pensare che le future discussioni intorno al
problema concentrazionario guadagnerebbero in
pregio se avessero come punto di partenza una
revisione generale degli avvenimenti di cui i
campi tedeschi furono teatro, attraverso la
massa di testimonianze che hanno suscitato .
Raggiunta questa convinzione, l'idea mi
obbligava a riunire e a pubblicare i primi
elementi di questa revisione. Così si
spiega e si giustifica questo mio Sguardo
sulla letteratura
concentrazionaria.
***
L'esperienza dei
combattenti dell'altra guerra, ancora
così fresca per essere stata inutile,
offre anch'essa la possibilità di un
parallelo che ritengo probante.
Essi erano tornati con
un gran desiderio di pace, giurando per tutti i
santi che avrebbero fatto di tutto perché
fosse l'ultima delle ultime» . Si fu loro
grati, si dimostrò loro una riconoscenza
che non era esente da una certa ammirazione.
Nella gioia, nella speranza e nell'entusiasmo,
un'intera nazione fece loro un'accoglienza piena
di affetto e di fiducia.
Tuttavia, alla vigilia
di questa guerra, essi erano molto discussi . Le
loro testimonianze erano abbondantemente
commentate in varie guise e il meno che si possa
dire è che l'opinione generale non era
tenera nei loro riguardi, per quanto essi se ne
siano appena accorti e non se ne siano affatto
preoccupati. Spesso, però, fu ingiusta.
Se sceverò tra i loro discorsi e i loro
racconti, si traduceva però in giudizi
definitivi che avevano in comune la
disinvoltura. Sogghignando dei primi, diceva che
si trattava degli inevitabili chiacchieroni --
era proprio questa la parola che usava -- i cui
ricordi asfissiavano tutte le conversazioni, o
dei capi di associazioni distrettuali e
nazionali la cui missione sembrava limitata ad
una rivendicazione domenicale. Sui secondi, essa
era altrettanto categorica, e vi era una sola
testimonianza a cui prestasse fede: Le
Feu, di Barbusse. Quando, nei suoi rari
momenti di benevolenza, le accadde di fare
un'eccezione, fu per Galtier-Boissière e
per Dorgelès, ma per un altro motivo: per
il pacifismo beffeggiatore e impenitente del
primo e per il realismo che riuscì ad
assimilare dell'altro.
Chi potrà dire
le ragioni precise di questo
capovolgimento?
A mio avviso, tutto si
inserisce in questa verità generale: gli
uomini sono molto più preoccupati
dell'avvenire, che li attira, che non del
passato, dal quale non hanno più nulla da
attendersi, ed è impossibile fermare la
vita dei popoli su un avvenimento, per
straordinario che esso sia, e, a più
forte ragione, su una guerra, fenomeno che perde
d'interesse giorno dopo giorno e che passa
sempre di moda molto rapidamente .
Alla vigilia del 1914
mio nonno, che non aveva ancora digerito la
guerra del 1870, la raccontava ogni domenica a
mio padre, il quale sbadigliava di noia . Alla
vigilia del 1939 mio padre non aveva ancora
finito di raccontare la sua, e, per non essere
da meno, ogni volta che cominciava a parlare io
non potevo impedirmi di pensare che Du Guesclin,
(3) se fosse risorto tra noi con la fierezza
delle gesta che traeva dalla sua balestra, non
avrebbe potuto essere più
ridicolo.
Così le
generazioni vengono ad opporsi nei loro concetti
. E si oppongono anche nei loro interessi. A
proposito di ciò, a titolo di cronaca
dirò che nel periodo trascorso fra le due
guerre le generazioni che erano in ascesa
sentirono che per loro era impossibile tentare
il minimo slancio verso la realizzazione del
loro destino senza urtare contro il vecchio
combattente con le sue pretese e con i suoi
diritti preferenziali. A lui erano stati
riconosciuti dei diritti su di noi». Egli
ne approfittò per reclamarne senza tregua
degli altri. Ora, ci sono dei diritti che
perfino il fatto di aver sofferto per una lunga
guerra e di averla vinta non conferisce: in
particolare, quello di essere il solo dichiarato
abile a costruire una pace, o quello, più
modesto, di passare sopra il merito degli altri,
si tratti di una tabaccheria, di un impiego di
guardia campestre o di un concorso
qualsiasi.
Il divorzio fu
consumato senza speranza di ritorno negli anni
Tren-ta, con la crisi economica . Si
aggravò verso il 1935, con la
dimenticanza, da parte degli uni, dei giuramenti
che avevano fatto al loro ritorno, dell'estrema
facilità con la quale accettarono
l'eventualità di una nuova guerra, e con
la volontà di pace da parte degli altri.
E anche una legge dell'evoluzione storica che le
nuove generazioni siano pacifiste, che per loro
tramite, nel corso dei secoli, l'umanità
si affermi progressivamente nella ricerca della
pace universale e che la guerra sia sempre, in
una certa misura, il prezzo del riscatto dalla
gerontocrazia.
Premesso questo con la
opportuna riserva, sembrerebbe anche che i
vecchi combattenti abbiano commesso un errore di
ottica insieme ad un errore di psicologia. In
qualsiasi caso, dopo vent'anni di un'agitazione
tenace e ininterrotta, i problemi della guerra e
della pace, essendo stati appena sfiorati,
rimanevano immutati. Bisogna però
riconoscere un merito ai combattenti: hanno
raccontato la loro guerra quale essa veramente
fu. Non c'è una delle loro parole che,
letta o sentita, non suoni profondamente vera o,
per lo meno, verosimile. Il che non si
può certo dire di quanto hanno detto i
deportati.
Questi, invece,
tornarono con l'odio e il risentimento sulla
lingua e nella penna . Commisero, certo, gli
stessi errori di ottica e di psicologia dei
vecchi combattenti. Per di più, non erano
ancora guariti dalla guerra che già
reclamavano vendetta. Soffrendo di un complesso
di inferiorità -- per parlare a 40
milioni di abitanti, si ritrovarono in appena
30. 000, e in che stato! --, per ispirare una
più sicura pietà e riconoscenza,
si misero a coltivare l'orrore a piacere,
davanti a un pubblico che aveva conosciuto
Oradour e che chiedeva qualcosa di sempre
più sensazionale.
Eccitandosi l'un
l'altro, furono presi come in un ingranaggio e
giunsero progressivamente, inconsapevolmente
alcuni, scientemente la maggioranza, a rendere
sempre più fosco il quadro . Così
era stato di Ulisse il quale lavorava nel
meraviglioso e, nel corso del suo viaggio,
aggiungeva ogni giorno una nuova avventura alla
sua odissea, sia per dar soddisfazione al gusto
del pubblico di quell'epoca, sia per
giustificare la sua lunga assenza agli occhi dei
suoi. Ma, se Ulisse riuscì a creare la
sua propria leggenda e a fissare su di essa
l'attenzione di venticinque secoli di storia,
non è esagerato dire che i deportati
fallirono nel loro scopo.
Nei primissimi tempi
dopo la Liberazione tutto era andato bene . Non
si poteva, senza correre il rischio di diventare
sospetti, discutere le loro testimonianze e, se
anche si fosse potuto, non se ne sarebbe avuto
il desiderio. Ma, lentamente e come nel silenzio
di una cospirazione, la verità si prese
la rivincita. Con l'aiuto del tempo e il ritorno
alla libertà di espressione in condizioni
di vita sempre più normali, un bel giorno
questa verità proruppe. Si poté
scrivere, con la certezza di tradurre il comune
malessere e di non ingannare:
- Mente bene chi
viene da lontano ... Ho letto molti racconti
di deportati: sempre, ho sentito la reticenza
o il colpo di pollice. Perfino David Rousset,
in certi momenti, ci fa smarrire: vuole
spiegare troppo.
tutte cose che nessuno
avrebbe mai osato nemmeno pensare de Le
Feu, de Les Croix de Bois, de
La Grande Illusion, dell'A l'Ouest
rien de nouveau, o dei Quatre de
l'Infanterie.
I vecchi combattenti ci
misero quindici anni a perdere il credito che
avevano di fronte al pubblico: ne bastarono meno
di quattro ai deportati, pur essendo meglio
armati per bruciare tutti i loro vascelli . A
parte questa differenza, il loro destino
politico fu eguale.
Tale è
l'importanza della verità nella storia
.
* *
*
Vorrei raccontare
ancora un piccolo aneddoto personale che
è tipico in quanto mostra il valore del
tutto relativo che va dato alle testimonianze in
generale.
La scena si svolge in
tribunale nell'autunno del 1945 . Una donna
è sul banco degli accusati. La
Resistenza, che la sospetta di collaborazione,
non è riuscita ad eliminarla prima
dell'arrivo degli americani, ma suo marito
è caduto sotto una raffica di mitra,
nell'angolo di una strada buia, in una sera
dell'inverno 1944-45. Non ho mai saputo che cosa
avesse fatto questa coppia, sul conto della
quale avevo sentito, prima del mio arresto, le
più inverosimili chiacchiere. Per
sincerarmi, al mio ritorno andai
all'udienza.
Nel fascicolo non
c'è molto . Ne consegue che i testimoni
sono più numerosi e più spietati.
Il principale di essi è un deportato,
vecchio capo-gruppo della Resistenza locale,
dice lui!I giudici sono visibilmente imbarazzati
dalle accuse, la cui consistenza sembra loro
molto discutibile.
L'avvocato della difesa
cerca una falla nelle deposizioni . Arriva il
teste principale. Spiega che dei membri del suo
gruppo furono denunziati ai tedeschi, il che non
poteva essere fatto che dall'accusata e da suo
marito, i quali erano loro amici intimi e
conoscevano le loro attività. Aggiunge
che ha visto lui stesso l'accusata in amabile
conversazione con un ufficiale della
Kommandantur che alloggiava su un cortile,
dietro il negozio dei genitori di lei, che lei e
lui si scambiavano delle carte, ecc.
L'Avvocato : Lei
frequentava quel negozio?
Teste:
Sì, appunto per sorvegliare questi
rapporti.
L'Avvocato : Può
farmene una descrizione?
( Il teste si presta
al gioco molto di buon grado. Indica la
posizione del banco, degli scaffali, della
finestra di fondo, dice le dimensioni
approssimative, ecc... , tutte cose che
non sollevano alcun incidente).
L'Avvocato : Dunque
dalla finestra di fondo che dà sul
cortile, lei ha potuto vedere l'accusata e
l'ufficiale scambiarsi delle carte.
Teste : Esattamente.
L'Avvocato : Allora lei
può precisare in che punto del cortile
essi si trovavano e in che punto del negozio si
trovava lei?
Teste: I due
complici erano ai piedi di una scala che
conduceva alla camera dell'ufficiale, l'accusata
teneva i gomiti appoggiati alla rampa, il suo
interlocutore le stava molto vicino, cosa che
farebbe supporre...
L'Avvocato : Basta
così. (Indirizzandosi alla Corte e
tendendo un foglio): Signori, non vi
è nessun punto dal quale si possa vedere
la scala in questione: ecco una pianta fatta da
un perito geometra.
( Sensazione. Il
presidente esamina il documento, lo passa ai
giudici, riconosce l'evidenza, poi, al
teste):
-- Lei mantiene la sua
deposizione?
Teste:
Cioè... non sono io che ho visto... E uno
dei miei agenti che su mia richiesta mi aveva
fornito un rapporto... Io...
Il Presidente
(seccamente): Può
andare.
Il seguito di questo
caso non ha nessuna importanza dato che il teste
non fu arrestato in piena udienza per oltraggio
al magistrato o falsa testimonianza e dato che
l'imputata, avendo riconosciuto che seguiva i
corsi dell'Istituto franco-tedesco, cosa che
aveva creato, come diceva, certe relazioni
amichevoli fra lei ed alcuni ufficiali della
Komman-dantur, fu infine condannata a una pena
detentiva per un insieme di circostanze che la
accusavano solo implicitamente .
Ma, se si fosse spinto
il testimone fin nei suoi ultimi trinceramenti,
probabilmente ci si sarebbe accorti che l'agente
al quale pretendeva di aver chiesto un rapporto
era inesistente e che la sua deposizione era
soltanto un cumulo di quei si dice che
avvelenano l'atmosfera delle piccole
città dove tutti si conoscono.
Lungi da me l'idea di
assimilare a questa tutte le testimonianze
apparse sui campi di concentramento tedeschi .
mio scopo mira soltanto a stabilire che ve ne
furono altre che non hanno nulla da invidiarle,
anche tra quelle che ebbero la miglior fortuna
nell'opinione pubblica. E che, a parte la buona
o la cattiva fede, vi sono tali e tanti
imponderabili che influiscono su chi racconta
che bisogna sempre diffidare della storia
raccontata, specie quando lo è a caldo.
Il libro di David Rousset, Le Jours de notre
mort, che consacrò il prestigioso
talento dell'autore, non è, per la
maggior parte dei fatti ai quali l'autore si
riferisce, se non un susseguirsi di si
dice a loro tempo correnti in tutti i campi
e mai controllati sul posto, tutta una sequela
di testimonianze di seconda mano, giustapposte
-- armoniosamente, bisogna riconoscerlo -- allo
scopo di servire ad un'interpretazione
particolare.
In questo mio lavoro,
dove si tratta di verità e non di
talento, non se ne troverà estratto
alcuno .
***
Nel 1950 avevo
classificato i testimoni in tre
categorie:
-- quelli che non erano
per nulla destinati ad essere testimoni fedeli e
che, del resto senza nessuna intenzione
peggiorativa, io chiamavo i testimoni
minori;
-- gli psicologi,
vittime di una tendenza a mio parere un po'
troppo pronunciata per l'argomento
soggettivo;
-- i sociologi o
reputati tali.
Non avevo trovato
storici, o che almeno fossero degni di questo
nome .
In guardia perfino
contro me stesso, per non essere in nulla
accusato di parlare di cose situate un po'
troppo lontano dalla mia personale esperienza o
di cadere a mia volta, rischiando qualche
distorsione alla regola della probità
intellettuale, nel difetto che rimproveravo agli
altri, avevo deliberatamente rinunciato a
presentare un quadro completo della letteratura
concentrazionaria dell'epoca .
Il numero dei testimoni
messi in discussione era dunque limitato in ogni
categoria e nell'insieme: tre testimoni minori
(4) (l'abate Robert Ploton, Frate Birin, delle
scuole cristiane di Epernay, l'abate Jean-Paul
Renard), uno psicologo (David Rousset) e un
sociologo (Eugen Kogon). Fuori categoria:
Martin-Chauffier. Avendo un caso fortunato fatto
sì che, ad eccezione di uno solo, la loro
esperienza si riferisse agli stessi campi in cui
io avevo fatto la mia e che essi fossero i
più rappresentativi, questo metodo molto
semplice comportava molti vantaggi.
Da allora, sostenuta e
incoraggiata dalla politica che regola i
rapporti americano-russi, la letteratura
concentrazionaria che a sua volta sostiene tale
politica non ha fatto che crescere ed
abbellirsi. Non è un segreto per nessuno
che nella politica generale degli Stati Uniti vi
è un certo numero di articoli che sono
unicamente destinati a non rompere radicalmente
i ponti con la Russia: il mito del pericolo
della rinascita del nazismo e del fascismo in
Europa è uno di questi. Stalin e Truman
(degno erede di Roosevelt) lo hanno sfruttato a
fondo insieme; il primo per impedire all'Europa
di prendere coscienza di se stessa e di unirsi
alla Germania; il secondo per deficienza
mentale. E Chrushchev ha continuato a giocare
con Kennedy il gioco di Stalin con
Truman...
Comunque sia, verso il
1950, rinacque e prese corpo in molte buone
intelligenze l'idea che l'Europa esisteva .
Provocata, in passato, dallo spauracchio delle
guerre germano-francesi, questa presa di
coscienza episodica aveva, questa volta, un
altro spauracchio con due insegne complementari:
da una parte, la quasi certezza che, divisa
contro se stessa, l'Europa era una facile preda
per il bolscevismo; dall'altra, quella che non
vi era Europa possibile senza che la Germania vi
fosse integrata. A Mosca, a Tel-Aviv, si era
sentito, allo spirare del suo primo soffio, che
questo vento veniva da lontano: se fosse
diventato tempesta non avrebbe mancato dal
concludersi in una Europa unita, cosa che
avrebbe significato l'isolamento per la Russia
e, per ciò che riguardava Israele, la
fine di quelle sovvenzioni di importanza vitale
che le vengono versate dalla Germania a titolo
di riparazioni (ricevendo Gerstenmayer,
presidente del Bundestag, Ben Gurion aveva
dichiarato, il 30 novembre 1962, che alla data
del 1· aprile il loro ammontare raggiungeva
850 milioni di dollari: una bazzecola!). La
controffensiva non si fece attendere: due
attacchi sincronizzati in modo così
perfetto da sembrare concertati in anticipo
partirono come frecce da due imprese di
fabbricazione e falsificazione di documenti
storici, una sotto la ragione sociale di un
Comitato per la ricerca dei crimini e dei
criminali di guerra, la cui sede è a
Varsavia, l'altra sotto quella del Centro
mondiale di documentazione ebraica
contemporanea, le cui due più
importanti succursali sono a Tel-Aviv e a
Parigi. Tema: gli orrori e le atrocità
commesse durante la seconda guerra mondiale dal
nazismo, vocazione naturale della Germania (il
tema precisava che il governo di Bonn ne aveva
ripreso i principi nazionalistici e
militaristici fondamentali), che ne faceva un
popolo da tenersi strettamente sotto controllo e
molto accuratamente isolato. Il primo risultato
di questa controffensiva fu, per quanto mi
risulta, la Documentazione sullo sterminio
per mezzo del gas (1950) di H. Krausnik; il
secondo, Medico a Auschwitz (1951), di un
certo dottor Niklos Nyiszli, israelita ungherese
deportato in quel campo nel maggio 1944, (5) e
il terzo Il Breviario dell'odio (1951) di
Léon Poliakov. Dopo di allora non
c'è stata tregua: ogni volta che è
apparso il minimo segno di riavvicinamento fra
la Germania e gli altri popoli europei (CECA,
Mercato Comune, Trattato franco-tedesco, ecc. )
abbiamo avuto, avallate dal Comitato di Varsavia
o da un membro importante del Centro mondiale di
documentazione ebraica, oppure anche
dall'Institut für Zeitgeschichte di
Monaco, che è una diramazione dei due,
pubblicazioni di tal fatta che, ogni volta,
costituirono un atto di accusa più
terribile del precedente contro la Germania di
Bonn e sulle quali la stampa mondiale montava
una spettacolare campagna di pubblicità.
E così che sono stati
successivamente pubblicati: Il Terzo Reich e
gli Ebrei (1953) di Léon Poliakov e
Wulf, la Storia di Joel Brandt, uno scambio
di 10. 000 camion contro un milione di ebrei
(1955), Parla il Lagerkommandant di
Auschwitz, Ricordi di Rudolf
Höss (1958) (6) ecc. , per citare
soltanto i più clamorosi; se si dovessero
citare tutti, la loro sola lista, senza nessun
commento, richiederebbe un volume. Molto di
recente, un'antologia di questa letteratura
è stata redatta da un Comitato di
studio della seconda guerra mondiale, con
sede a Parigi ed i cui animatori sono una
signora Olga Wormser, del Centro di
documentazione ebraica, e un illustre
sconosciuto tuttofare dal nome di Henri Michel:
si è valsa dei testi di 208 autori
testimoni e debbo anche aggiungere che cita
soltanto quelli che seguono senza il minimo
errore la linea secondo la quale conviene
testimoniare, da to che sugli scaffali della mia
biblioteca di lavoro ne figurano quasi
altrettanti che non vi sono citati, pur anche
questi accusando, e spesso facendolo più
intelligentemente, anche se con eguale mancanza
di rispetto per la verità storica. Era
naturale che io non vi fossi menzionato. Titolo
di questa antologia: Tragedia della
deportazione (1962). La cosa più
triste è che si siano trovati degli
storici abbastanza disonesti da avallare queste
testimonianze con la loro autorità:
Labrousse e Renouvin in Francia, Rothfels in
Germania, ecc. Gli Stati Uniti, a loro volta, ne
hanno da poco portato uno alla causa del
Comitato di Varsavia e del Centro mondiale di
documentazione: Raul Hilberg, il cui libro,
The Destruction of the European Jews (
1961), è certamente il più
importante di tutti i lavori che sono stati
pubblicati sull'argomento e quello che è
riuscito meglio a darsi le apparenze -- soltanto
le apparenze -- di uno studio serio. Un
monumento.
Per essere completi,
bisognerebbe citare anche i film destinati a
condizionare l'opinione pubblica che sono stati
tratti da questa letteratura: L'Ultima
Tappa, Kapo, I Documenti di
Norimberga, ecc.
Mi era necessario
includere tutto ciò nei miei lavori
precedenti: senza preoccuparmi di semplificare,
ho deciso di consacrare la quinta parte di
questo lavoro a The Destruction of the
European Jews.
Tutto sommato, il
lettore sarà, per esempio, tentato di
considerare questa messa a punto generale del
grande dramma della deportazione soltanto in
funzione delle sue tragiche conseguenze
d'insieme sul piano umani e di concludere che ho
forse indugiato troppo sul dettaglio . Se metto
in rilievo il fatto che i trasporti dalla
Francia alla Germania si effettuavano in ragione
di cento uomini per ogni vagone destinato a
contenerne al massimo quaranta, e non, come
certe persone hanno asserito, in ragione di
centoventicinque uomini, si osserverà che
questo non modifica sensibilmente in meglio le
condizioni generali del viaggio. Se preciso che
un campo si chiamava Bergen- Belsen
anziché Belsen-Bergen, con questo non
cambio nulla alla sorte di chi vi era internato.
Che la parola Kapo provenga dalle
iniziali di quelle che compongono l'espressione
tedesca Konzentrazionslager Arbeit
Polizei o derivi invece dall'espressione
italiana Capo non ha nessuna importanza.
E che i cattivi trattamenti, la fame, la
tortura, ecc. , abbiano avuto luogo in questo o
in quel campo, che siano riferiti da chi ne fu o
da chi non ne fu testimone oculare, che siano
stati opera delle SS direttamente oppure per
interposta persona di detenuti selezionatissimi,
restano sempre cattivi trattamenti.
A mia volta
osserverò che un insieme è
composto di particolari e che l'errore in un
particolare, anche se fatto in buona fede, oltre
a falsare la natura dei fatti e la loro
interpretazione da parte dello spettatore, lo
porta logicamente a dubitare di tutto l'insieme
. Un solo errore può portarlo a dubitare,
ma che dire se poi ve ne sono
diversi?
E che dire se dipendono
tutti da malafede?
Mi si capirà
meglio se ci si vorrà riportare ad un
fatto che ebbe gli onori della cronaca qualche
anno addietro . Alla vigilia stessa di questa
guerra, uno studente straniero, approfittando di
un momento di disattenzione dei guardiani,
rubò al Louvre un quadro di Watteau
conosciuto col nome de L'Indifferente.
Qualche giorno dopo lo riportò, ma nel
frattempo gli aveva fatto subire una piccola
modifica: infastidito da quella mano che si
sollevava in un gesto che tutti gli specialisti
sostenevano fosse rimasto incompiuto per volere
del Maestro in persona o per cause indipendenti
dalla sua volontà, egli l'aveva
appoggiata a un bastone. Questo bastone non
cambiava nulla al personaggio stesso. Al
contrario, si armonizzava meravigliosamente bene
col suo atteggiamento. Ma precisava il senso
della sua indifferenza e modificava
sensibilmente l'interpretazione che se ne poteva
dare, sia nella sua causa sia nel suo scopo. In
particolare, si poteva sostenere che
l'interpretazione sarebbe stata del tutto
diversa se, invece del bastone, fosse stato
messo in mano al personaggio un paio di guanti,
o se vi si fosse lasciato negligentemente cadere
un mazzo di fiori.
Benché non si
potesse giurare che all'origine, il bastone, se
non esisteva effettivamente sul quadro, non
fosse però stato nelle intenzioni di
Watteau più dei guanti o del mazzo di
fiori, esso fu cancellato e il quadro rimesso al
suo posto . Se lo si fosse lasciato sussistere,
nessuno probabilmente avrebbe notato una
stonatura, sia nel quadro, sia nell'aspetto
generale delle gallerie di pittura del Louvre.
Ma se, invece di limitarsi alla correzione
dell'Indifferente, il nostro studente si
fosse premurato di risolvere tutti gli enigmi di
tutti i quadri, se avesse posto una maschera di
velluto sul sorriso della Gioconda, dei
ninnoli nelle mani tese di tutti quei Bambin
Gesù che riposano, attoniti, sulle
ginocchia e tra le braccia delle Vergini
impassibili, degli occhiali a Erasmo; e... se si
fosse permesso che tutto ciò restasse, ci
si può immaginare l'aspetto che avrebbe
avuto il Louvre!
Gli errori che si
possono rilevare nelle testimonianze dei
deportati sono dello stesso ordine del bastone
dell' Indifferente o di un'eventuale
maschera sul viso della Gioconda: senza
modificare sensibilmente il quadro dei campi,
esse hanno falsato il senso della
storia.
Passando da una
testimonianza all'altra e associandole, il
deportato in buona fede ha la stessa impressione
che proverebbe se percorresse le gallerie di un
Louvre di atrocità interamente riveduto e
corretto .
Sarà così
anche del lettore se, prima di dare il suo
giudizio tanto sui testi quanto sui documenti
che io incrimino e sulle conclusioni che ne sono
state tratte da certi storici un po' troppo
palesemente impegnati al servizio di una
politica, vorrà domandarsi se, a
prescindere da ogni altra considerazione, questi
testi, documenti e interpretazioni potrebbero
essere mantenuti nella loro interezza davanti ad
un tribunale regolarmente costituito che fosse
per di più veramente minuzioso, e non ...
un altro tribunale di Norimberga!
Parigi, luglio
1963
NOTE
1
. Pubblicato
nel 1950 col titolo Le Mensonge d'Ulysse
e con il sottotitolo Regard sur la
littérature concentrationnaire.
2. Pittore e umorista francese del Novecento
[ndt].
3. Valoroso guerriero e statista francese del
Trecento [ndt].
4. Prego il lettore di non vedere alcuna maligna
intenzione di anticlericalismo nel fatto che il
gruppo è tutto di preti.
5. Sulla testimonianza» del Nyiszli (ed.
ital. : Longanesi, 1977) si veda C. Mattogno,
Medico ad Auschwitz»: anatonomia di un
falso, La Sfinge, Parma, 1988
[ndt].
6. Un'edizione di questi ricordi era stata
pubblicata in Polonia nel 1951, ma, per quanto
ne so io, non aveva ancora varcato la cortina di
ferro nel 1958. (Sul libro autobiografico di R.
Höss si vedano ora: C. Mattogno,
Auschwitz: le confessioni» di
Höss, La Sfinge, Parma, 1987; R.
Faurisson, Comment les Britanniques ont
obtenu les aveux de Rudolf Höss, in
Annales d'Histoire révisionniste»,
n. 1, primavera 1987; Idem, Le
témoignage du Commandant
d'Auschwitz» est déclaré sans
valeur!, in Nouvelle Vision», n. 33,
giugno-agosto 1944. Nel cit. studio del Mattogno
il lettore italiano troverà un saggio di
come la metodologia revisionista non solo non
escluda a priori l'esistenza delle camere
a gas, ma possa tranquillamente partire
da questo presupposto per confutare i singoli
testimoni oculari»: così l'autore,
p. 6 [ndt]. )
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