La natura del sionismo
E’ immaginabile che un italiano o un francese o un tedesco decida di ‘dimissionare’ dal popolo al quale appartiene? Una domanda strana questa e credo nessuno se la sia mai posta. O almeno non in questi termini. Noi non decidiamo in seno a quale popolo nasciamo e di solito cresciamo acquisendo naturalmente la lingua, la cultura, il modo di pensare e di sentire del popolo a cui apparteniamo. A scuola poi studiamo la storia della nostra nazione; di solito gli insegnanti cercano di farci appassionare ad essa, con incerti risultati. Talvolta però, noi giudichiamo la nostra storia, cioè il nostro passato. Può ben darsi che da adulti decidiamo di rigettare aspetti della storia del popolo a cui apparteniamo. E’ molto probabile, per esempio che un tedesco che abbia una forte sensibilità democratica, una buona cultura e una discreta intelligenza, venendo a conoscenza dei crimini del nazismo, decida di rigettare totalmente quel periodo sciagurato della storia della sua nazione. Lo stesso, verosimilmente, accade, nei confronti del fascismo ad un italiano che comprende di quali crimini si sia macchiato il nostro paese a causa di quella ideologia nazionalista, guerrafondaia e colonialista. Aver contribuito a scatenare la seconda guerra mondiale, essere intervenuti in Spagna in una guerra civile che non ci riguardava, aver voluto costruire un impero coloniale (tra l’altro quando i tempi erano maturi per la decolonizzazione e i popoli sottomessi già si apprestavano ad affossare gli imperi coloniali di Francia e Inghilterra), aver fatto ricorso ad armi chimiche proibite dalla convenzione di Ginevra contro gli etiopi e i somali, ecc., sono tutte cose di cui c’è poco da andar fieri. Qualche altra volta non è solo un breve periodo della nostra storia che noi rigettiamo. Talvolta sentiamo che un aspetto del nostro carattere nazionale non ci soddisfa, quasi ce ne vergogniamo; vorremmo non essere stati e non essere in un determinato modo. A più di un francese il senso tradizionale della « Grandeur » e il nazionalismo d’oltralpe può, a ragione, dare fastidio. Ad un italiano, il nostro eccessivo cinico particolarismo e il tradizionale menefreghismo possono risultare insopportabili, come pure l’ipocrisia e il servilismo delle classi dirigenti verso le ‘autorità’ religiose. Immagino che un inglese colto, che conosca bene la letteratura del suo paese, debba sentirsi poco a suo agio quando considera che i più grandi scrittori del suo paese, da Chaucer a Shakespeare, da Thackeray a Dickens, da Kipling a Orwell abbiano potuto apertamente o velatamente esporre nelle loro opere atteggiamenti o idee antisemite e razziste. La stessa persona non credo possa andare fiera della storia dell’impero britannico. Un individuo non è certo responsabile del passato della sua nazione, tuttavia, questa considerazione (consolatoria) non può impedire di aver l’obbligo di assumerci, in casi simili a quelli menzionati, tutte le responsabilità della storia della nostra nazione e quindi prendere l’impegno che cose del genere non accadano più. Un individuo continua a sentirsi italiano, francese, tedesco o inglese, ben inteso, perché quel periodo incriminato della storia o quell’aspetto del carattere nazionale non è tutta la storia del suo paese, tutto il carattere nazionale. Ci sono stati periodi storici di cui non solo uno non deve vergognarsi ma addirittura deve andarne fiero; e così pure ci sono altri aspetti del carattere nazionale che uno sente come molto positivi e a cui tiene particolarmente. Non si pensa certo di « dimissionare » dal proprio popolo perché nella storia esso ha conosciuto talvolta il disonore o perché non piace un aspetto del carattere o del modo di essere del proprio popolo.
Perché allora l’ebreo Bertell Ollman vuole dare le dimissioni dal popolo ebraico?[1]
Sionismo, un’ideologia e una pratica aggressiva e colonialista
Perché mai questo ebreo americano, professore universitario di Studi Politici prova una terribile angoscia, come dice lui stesso, all’idea di morire ebreo?
Questa angoscia e questa paura più forte della morte gli derivano dal sionismo, cioè dall’ideologia oggi dominante, ma non unica, nel popolo ebraico. Un’ideologia che è alla base del movimento di colonizzazione della Palestina, iniziato alla fine del 19° secolo, acceleratosi dopo la Dichiarazione di Balfour (1917) e consolidatosi robustamente con la fondazione dello « stato ebraico » nel 1948 e con la sua espansione ancora
in corso dal 1967 ad oggi. Il progetto sionista nasce dunque molto prima dell’Olocausto e della spartizione della Palestina. Quest’ultima fu concepita dall’imperialismo britannico negli anni ’30. Precedentemente i britannici, con la Dichiarazione di Balfour, avevano accettato l’idea di una « Jewish National Home » in Palestina e ne avevano favorito la creazione incoraggiando la colonizzazione ebraica sotto la protezione del mandato sulla Palestina che avevano ottenuto dalla Società delle Nazioni dopo il crollo dell’impero ottomano. Dopo varie rivolte dei palestinesi contro la colonizzazione delle loro terre (1922, 1929, 1936) la Gran Bretagna concluse che si dovesse arrivare ad una spartizione e alla formazione di due stati. Tutto questo senza consultare il popolo palestinese, ma con una semplice imposizione imperialista. Fu incaricata di redigere il documento una commissione parlamentare, la commissione Peel. Il movimento sionista però, fin dall’inizio, aveva affermato chiaramente che suo obiettivo finale era la creazione di uno stato ebraico su tutta la Palestina mandataria con l’aggiunta delle alture del Golan, il sud del Libano e la Transgiordania (oggi Giordania). Un obiettivo che andava ben aldilà dello stesso territorio della Palestina storica. Il progetto di spartizione fu considerato come un compromesso provvisorio, utile fintantoché le condizioni non fossero mature per la realizzazione dell’obiettivo finale. Ben-Gurion, allora alla testa del movimento sionista, presentò ai suoi il progetto britannico di spartizione in questi termini:
Lo stato ebraico che oggi ci si offre non è l’obiettivo sionista. In questa ristretta regione non è possibile risolvere la questione ebraica. Ma può servire come fase decisiva sulla strada di una più sostanziale realizzazione sionista. Esso permetterà di consolidare in Palestina, nel più breve tempo possibile, quella reale forza ebraica che ci porterà al nostro obiettivo storico. (Ben-Gurion, citato in Norman G. Finkelstein, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, Verso, Londra e New York, seconda edizione, 2003, p. 15).
E in una lettera al figlio qualche tempo dopo, lo stesso Ben-Gurion chiariva meglio il suo pensiero:Lo stato ebraico, scriveva, avrà “un potente esercito – non dubito che il nostro esercito sarà uno dei più potenti del mondo – e così non ci si potrà impedire di stabilirci nel resto del paese, cosa che noi faremo o con accordo e mutua comprensione con i vicini arabi o altrimenti” (David Ben-Gurion, citato in Norman Finkelstein, Ibidem.)
La posizione di Ben-Gurion divenne subito la posizione di tutto il movimento sionista e il 10 ottobre 1937, il rappresentante sionista in Egitto, Feivel Polkes, ribadiva perentoriamente a due inviati del III Reich, uno dei quali era …. Adolf Eichman, che:Lo stato sionista deve essere fondato con ogni mezzo e appena possibile ... Quando lo stato ebraico sarà stato fondato secondo le attuali proposte contenute nel documento della Commissione Peel, e in linea con le promesse parziali dell'Inghilterra, allora i confini potranno essere spostati ulteriormente in avanti secondo i nostri desideri” (citato in Lenni Brenner, “Zionism in the Age of the Dictators”, cap. 8.)
Dopo la spartizione iniziarono subito l’espansione e la pulizia etnica.
Negli ultimi tempi, come Bertell Ollman, tanti altri ebrei si sono espressi contro Israele e il sionismo, suscitando grande scandalo tra gli altri ebrei e tra i goy (non ebrei). Senza timore di andare contro corrente, essi si sono messi alla testa non solo di coloro che condannano Israele per la violazione dei diritti umani dei palestinesi, per la sua politica in Medio Oriente o per la sua perniciosa influenza sui governi americani, ma soprattutto di coloro che si oppongono all’esistenza stessa di uno stato ebraico. Si oppongono cioè al cosiddetto «diritto di Israele ad esistere» in quanto stato sionista per soli ebrei.
Costruire uno stato etnicamente puro o comunque dominato fortemente da una sola etnia, la quale viene fatta affluire a poco a poco dall’esterno, su una terra già abitata da un altro popolo è semplicemente un progetto criminale che non può portare altro a tutta la regione se non sangue, sventure, violenza, ingiustizia e instabilità per decine e decine di anni. A circa 60 anni dalla fondazione dello stato di Israele, ciò è esattamente quello che in Medio Oriente ancora accade. Israele sostiene che ciò avviene perché gli arabi non accettano gli ebrei, perché sono antisemiti. La lotta di Israele quindi sarebbe una lotta per la sua difesa, per la sua sopravvivenza, per impedire un altro Olocausto antisemita. Sono pure falsità: gli arabi non sono antisemiti e non vogliono cacciare gli ebrei dal Medio Oriente; torneremo su questo punto nell’ultimo capitolo del nostro scritto. Per ora chiediamo: si può accettare di essere cacciati dalla propria terra da qualcuno a cui non si è mai fatto alcun male? Si è antisemiti se si rivendica e si lotta per tornare nella terra dei propri avi? Ed è innocente chi si è appropriato con la violenza e l’inganno della tua casa e dei tuoi beni, ha compiuto un’operazione di pulizia etnica e di deportazione e ti ha ridotto allo stato di profugo? La fondazione di Israele è stata resa possibile, e oggi lo riconoscono anche gli storici israeliani, proprio e solo da una gigantesca operazione di pulizia etnica che ancora perdura. Cosa c’è di più aggressivo di una pulizia etnica e di una deportazione (il politically correct sionista vorrebbe che usassimo il termine più innocuo « tranfer »)? Nel 1948 furono espulsi dalla Palestina oltre 750 000 palestinesi ed oggi costoro e i loro discendenti sono diventati 5 milioni e vivono sparsi in vari paesi arabi, il più delle volte in campi profughi e in condizioni disumane o sono sotto occupazione militare nei territori occupati. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra ha causato gravi danni ai popoli dei paesi vicini. Il Libano, la Giordania, l’Egitto, la Siria, l’Iraq, soprattutto. Il più delle volte i profughi sono stati accusati di aver portato povertà, violenza, disordine sociale, ecc. sono stati perciò attaccati, perseguitati e spesso massacrati, con grande gioia di Israele, dai libanesi (durante la guerra civile), dai giordani (nel 1970), per esempio. Nel 1991, in 400 000 sono stati espulsi dal Kuwait, oggi sono perseguitati in Iraq dagli sciiti che li accusano di essere stati favoriti da Saddam. Succede che dei paesi poveri vedendo arrivare migliaia di profughi, se la prendano con loro, soprattutto se in questo sono incoraggiati da politici arabi corrotti, dagli Stati Uniti d’America o da Israele come accadde a Sabra e Chatila nel 1982. Ma l’aggressività di Israele non è solo limitata ai palestinesi. Per esempio, Israele non è certo indifferente alle recenti sventure dell’Iraq, dopo il regime di Saddam Hussein. Per assicurarsi una posizione di dominio sul mondo arabo, lo stato sionista ha sempre cercato di dividere i popoli e i paesi di quella regione. Ha anche cercato di distruggere qualsiasi rivale potenzialmente forte e capace di unificare tutti i nemici dello stato sionista. L’Iraq era, o poteva essere, questo paese. Di recente molti hanno cominciato a riconoscere il ruolo della lobby ebraica negli Stati Uniti (AIPAC) e gli sforzi degli ebrei neoconservatori sionisti presenti in forza nell’amministrazione Bush per ottenere le sanzioni contro l’Iraq prima e poi l’invasione di questo paese. Oggi Israele spinge per dividere il popolo iracheno in entità etniche deboli e volge lo sguardo verso quello che definisce il nuovo nemico: l’Iran. Un gran numero di spie e istruttori militari israeliani sono già presenti nel Kurdistan iracheno e operano in funzione anti-Iran. Israele si muove all’interno di una spinta strategica americano-sionista tesa a servirsi del territorio curdo in funzione anti-iraniana, ciò richiede di tenere buoni i curdi per rassicurare gli sciiti d’Iraq e soprattutto la Turchia, la quale dovrebbe essere anch’essa coinvolta in una possibile avventura militare contro Teheran.
Nel passato, prima della guerra all’Iraq, altri paesi arabi sono stati vittime di Israele. L’Egitto di Nasser nel 1956, la Giordania e la Siria nel 1967, il Libano nel 1982.
Nel 1956, la Francia e Inghilterra erano potenze coloniali in decadenza ma possedevano ancora la società che gestiva il canale di Suez, con relativi consistenti guadagni. Quando Nasser decise di nazionalizzare questa società che era un vero e proprio stato nello stato, Francia e Inghilterra, per ragioni di geopolitica e soprattutto di sfruttamento economico, decisero di far intervenire le loro cannoniere e i loro aerei per rovesciare il governo nasseriano. In tutta questa faccenda Israele non c’entrava per niente eppure si affrettò a entrare in guerra accanto ai colonialisti franco-britannici invadendo il Sinai. L’aggressività del giovane stato sionista, la volontà di infliggere una sconfitta ad un paese arabo e la possibilità di dimostrare ai paesi colonialisti quanto potesse essere utile un’alleanza con Israele contro le forze antimperialiste arabe, furono i fattori che spinsero i sionisti ad immischiarsi in una guerra che non li riguardava. Il risultato di quella guerra fu catastrofico per Francia e Inghilterra perché furono costrette ad accettare la nazionalizzazione del Canale da parte dell’Egitto e videro tramontare definitivamente le loro velleità interventiste. Chi invece ne guadagnò fu proprio Israele che si accreditò come un sicuro alleato dell’Occidente nella regione. La Gran Bretagna e la Francia lo ricompensarono del suo aiuto con la fornitura di tecnologie nucleari che permisero ai sionisti, negli anni ’60, di costruirsi un arsenale atomico con cui minacciare i popoli del Medio Oriente. Un arsenale atomico che oggi sfugge completamente a qualsiasi controllo ONU. Sia ben chiaro, ciò è avvenuto per volontà degli americani e dell’Occidente, cioè degli stessi che, per molto meno (ricerca scientifica in campo nucleare), oggi vogliono isolare l’Iran e addirittura parlano di attaccarlo con armi atomiche.
Nel 1967, Israele, ormai in possesso della bomba nucleare, con una guerra preventiva, attaccò la Giordania, la Siria e l’Egitto. Colti di sorpresa, male armati e peggio preparati, questi paesi cedettero ampi spazi di territorio. La Giordania cedette Gerusalemme Est e la Cisgiordania, terre palestinesi che l’ONU aveva affidato al regno ascemita. L’Egitto cedette la striscia di Gaza, già allora popolata di profughi palestinesi, e abbandonò anche il territorio egiziano del Sinai. La Siria fu sconfitta sulle alture del Golan che Israele prontamente incamerò pur non essendo mai stata questa regione abitata da ebrei. Cisgiordania e Gaza sono rimaste occupate e sono state colonizzate dal 1967 ai giorni nostri. La farsa del processo di pace di Oslo non ha mai fermato la colonizzazione. Oggi Israele ha deciso di chiudere i palestinesi nella cinta muraria dell’apartheid e di incamerare unilateralmente le migliori terre della Cisgiordania, Gerusalemme Est, dove si trovano i luoghi santi dell’Islam e della cristianità, e la fertile valle del Giordano ricca di acqua, così preziosa in quella regione. Il Golan fu anch’esso colonizzato e militarizzato, dopo essere stato liberato dei suoi importuni abitanti siriani naturalmente, e ancora perdura questo stato di cose. Il Sinai invece fu restituito all’Egitto quando Sadat accettò di accordarsi con Israele, passando nel campo americano. Il Sinai tuttavia fu completamente smilitarizzato e la sovranità egiziana su di esso fu fortemente ridotta. Israele infatti si assicurò la presenza di osservatori Onu in funzione anti-egiziana. Oggi è un luogo di vacanza per turisti israeliani (imprese israeliane vi hanno costruito decine di alberghi) e per turisti occidentali. Un buon business per gli imprenditori di Tel Aviv.
Nel 1982, toccò al Libano di essere aggredito dai sionisti. Fu proprio Sharon che penetrò nel paese vicino e giunse fino a Beirut. Lì, armò la mano di una fazione di libanesi « cristiani », i falangisti, perché massacrassero i profughi palestinesi inermi dei campi di Sabra e Chatila. Con la complicità degli Stati Uniti di Reagan, espulse l’OLP da Beirut. Alleandosi alle fazioni cristiane maronite accese la miccia di una guerra civile che doveva durare 7 anni e causare centinaia di migliaia di morti. Infine, ritirandosi da Beirut costituì la cosiddetta « fascia di sicurezza » in suolo libanese che per vent’anni ha gestito insieme con un altro gruppo cristiano, i traditori dell’Esercito del Libano del Sud (ELS). Da questa « fascia di sicurezza » l’esercito israeliano è stato cacciato dai patrioti di Hezbollah nel 2002.
Il sionismo non è quindi una ideologia politica innocente e pacifica ma nella sua storia si è reso responsabile di varie guerre di aggressione, non di difesa, di centinaia di migliaia di morti, di immani sofferenze inflitte ai palestinesi e agli altri popoli della regione. La presenza dello stato sionista su terre arabe è foriera di guerra e distruzione per chissà quanti anni a venire.
Sionismo, ideologia razzista, pulizia etnica e apartheid.
Si dice che il sionismo non sia altro che la forma di nazionalismo adottata dal popolo ebraico. In realtà, non tutti gli ebrei sono sionisti e molti non sono nemmeno nazionalisti. Vi sono ancora ebrei internazionalisti o marxisti come Bertell Ollman i quali rifiutano ogni forma di nazionalismo in quanto ideologia borghese e reazionaria. Molti di più erano gli ebrei comunisti e internazionalisti nel passato, al punto da far dire ai nazisti che il comunismo era un complotto ebraico. I nazisti preferivano gli ebrei sionisti e li aiutarono a colonizzare la Palestina. Non riuscivano invece ad accettare gli ebrei comunisti o internazionalisti. Ma non solo quelli. Dopo i comunisti, i nazisti perseguitavano gli ebrei assimilazionisti, cioè quelli ebrei che avevano famiglie miste e si consideravano tedeschi, polacchi, italiani ecc., a secondo dei paesi dove vivevano. I sionisti, invece, erano accettati ed è chiaro perché: nazisti e sionisti si trovavano d’accordo su una cosa: la concezione del nazionalismo. Secondo i sionisti, la Germania apparteneva ai tedeschi, alla razza ariana e gli ebrei avevano bisogno di separarsi da loro, fondare uno stato popolato esclusivamente da ebrei, uno stato che non esisteva e che andava fondato in Palestina. Questo avveniva prima dell’Olocausto quando i sionisti collaborarono con tutti i dittatori allora esistenti, non solo i nazisti, ma anche i fascisti, gli ultranazionalisti antisemiti polacchi e perfino con l’impero del Sol Levante. Tutto questo è confermato da due libri di un internazionalista ebreo che vive in America, Lenni Brenner, il quale ha raccolto i documenti storici che gli hanno permesso di ricostruire questa pagina vergognosa del sionismo. La ricerca storica minuziosa è contenuta nei due libri “Zionism in the Age of the Dictators” (1982) e “51 documents of the Collaboration of Zionism with Nazism” (2004). Questi libri fondamentali non sono stati tradotti in italiano ma almeno uno dei due, il primo, si può trovare in inglese sul web. I sionisti odiavano gli ebrei internazionalisti perché essi non volevano « una patria ebraica » e perché, per esempio, erano pronti a dare la loro vita per la libertà della Spagna durante la guerra civile spagnola invece di sacrificarsi per costruire lo stato sionista. I sionisti consideravano gli internazionalisti dei pazzi idealisti che lottavano per tutta l’umanità e in quanto pazzi idealisti erano irrecuperabili. Ma i sionisti odiavano più di ogni altra cosa quegli ebrei che non volevano emigrare in Palestina ma desideravano integrarsi nel paese in cui erano nati, magari sposare una donna o un uomo non di razza ebraica e vivere come un qualunque cittadino di quel paese. Erano gli assimilazionisti, i quali quando erano nazionalisti lo erano nel senso che sostenevano la nazione del paese in cui vivevano. Molti furono gli ebrei che partirono volontari nella prima guerra mondiale e si sacrificarono per unire all’Italia le terre irredente. Vi furono addirittura ebrei fascisti che sostenevano l’espansione coloniale italiana in Africa e sostenevano il nazionalismo revanchista di Mussolini. Uno di questi era, per esempio, il rabbino di Padova Felice Ravenna che si incontrò a Tripoli con il governatore Balbo. Alla fine dell’incontro fu emesso il seguente comunicato:
S.E. il Governatore della Libia ha ricevuto in lungo e cordiale colloquio l’avvocato Felice Ravenna, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, ed ha esaminato con lui le condizioni degli ebrei della Libia. Il governatore ha espresso all’avvocato Ravenna viva simpatia per la laboriosa, disciplinata e morale popolazione ebraica, che partecipa attivamente alla vita della nuova Italia mussoliniana d’Oltremare. (Citato in Renzo De Felice, Storia degli ebrei Italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993, p. 203)
Ancora più decisa era la posizione del generale Liuzzi che nel 1936 in un opuscolo intitolato ‘Per il compimento del dovere ebraico nell’Italia Fascista’ attaccava i suoi correligionari con queste parole:
E’ indispensabile e urgente che le nostre Comunità abbiano nell’Unione una superiore autorità responsabile del loro risanamento e che pertanto alla loro testa vengano messi uomini nuovi che posseggano le capacità di sapere e di voler fare, che dispongano cioè di un’anima ebraica non soltanto italiana del passato, ma profondamente e sicuramente fascista dell’avvenire. Equivoci e malintesi, vecchie radici massoniche e vincoli internazionali devono essere sicuramente banditi da tutti noi quali errori e tradimenti superati o trapassati. Anche qui si tratta di lottare e vincere nell’interesse della Patria [italiana] oltrechè nostro. (Ibidem, p. 225)
Dire che sionisti e nazisti avessero concezione del nazionalismo assai simili è un’accusa grave. Non la lanciamo con leggerezza o per puro intento di propaganda. Approfondiamo l’argomento. Nel periodo in cui nacque il sionismo, alla fine del XIX secolo, in Europa vi erano due concezioni contrapposte dell’idea di nazione e di nazionalismo. Da una parte vi era la concezione democratica nata durante la rivoluzione francese e figlia in via diretta dell’illuminismo. Secondo questa concezione, era compito di tutti i cittadini costruire nella propria nazione un ordine sociale che garantisse i principi di libertà, fratellanza e uguaglianza. Questi erano i principi democratici condivisi della nazione e su questi principi ogni cittadino doveva concorrere a costruire un ordine sociale razionale e giusto, indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, provenienza, ecc. Lo stato-nazione, non più proprietà del re per grazia divina, veniva quindi edificato su un accordo consensuale di tutti i cittadini, i quali erano considerati, sulla base egualitaria, i suoi elementi fondanti. L’uguaglianza veniva intesa esclusivamente in termini di diritti civili e politici e non economici e quindi era foriera di disuguaglianze sostanziali dovute alla ricchezza e all’influenza che la ricchezza porta con sé. La teoria marxista affronterà questo punto e cercherà di porvi rimedio sostenendo che l’uguaglianza politica debba essere fondata sull’uguaglianza economica e che questa è realizzata con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma essendo il capitalismo un fenomeno internazionale, i proletari di tutti i paesi si devono unire e giungere all’abolizione dei mezzi di produzione in tutti i paesi capitalisti, da qui la parola d’ordine ‘proletari di tutti i paesi unitevi!’ Così la nazione stessa perde significato e viene sostituita dal concetto di internazionalismo proletario. Comunque, la teoria dello stato-nazione nata dalla rivoluzione francese costituiva pur sempre un enorme passo avanti nella storia dell’umanità e ci si sarebbe aspettato che diventasse presto patrimonio comune dell’Europa intera. Gli ideali della rivoluzione francese furono sparsi su tutto il continente dalle armate napoleoniche e produssero una serie di rivoluzioni nazionali nel corso del secolo. Ma verso la fine del secolo, come reazione all’illuminismo e al razionalismo, si andò lentamente affermando in Germania e nell’est europeo un’altra concezione di nazione, non democratica e non egualitaria ma romantica, secondo la quale non tutti gli individui nascono uguali ed essi sono uniti tra loro da legami più profondi, più naturali, rispetto all’accordo consensuale della concezione democratico-rivoluzionaria francese. Secondo la concezione romantica, l’individuo è parte di una comunità organica, unita da una storia, una lingua, una religione, un folklore, una origine, un sangue comuni. Ogni comunità o nazione di questo tipo deve essere riunita sotto uno stato comune che esclude altre comunità o individui non corrispondenti alle caratteristiche dominanti. Vi sono ragioni storiche di questa diversa evoluzione ad ovest e ad est del fiume Reno.
Nell’Europa occidentale, – scrive lo storico Zeev Sternhell – il nazionalismo è comparso subito nella sua forma politica e giuridica. La nazionalità si è affermata con il lungo processo di unificazione dei regni. I popoli ai quali questi regni davano un potere centrale e una stessa capitale, erano di fatto composti da popolazioni così differenti quanto potevano esserlo dei vicini di religioni, culture, lingue ed etnie diverse. Anche le frontiere erano funzione della potenza. E se i relativi tracciati, nel caso di trattati – di pace o d’altro, - finivano con il separare popolazioni di una stessa lingua, di una stessa cultura, questo destino era accettato. La Francia, la Gran Bretagna e la Spagna costituiscono gli esempi più rappresentativi di una tale situazione. A est del Reno invece, i criteri di appartenenza nazionale non erano politici ma culturali, linguistici, etnici e religiosi. Le identità polacca, rumena, slovacca, serba o ucraina non si sono determinate come espressione di una fedeltà ad un’autorità centrale ma hanno preso forma intorno alla religione, alla lingua e al folklore sentiti come altrettante manifestazioni delle caratteristiche biologiche o razziali specifiche. A differenza di paesi come la Francia, la Gran Bretagna o la Spagna, qui la nazione ha preceduto lo stato. In questi paesi si capiva il pensiero di Herder, non quello di Locke, Kant, Tocqueville, John Stuart Mill o Marx. (Z. Sternhell, Sionismo e Nazionalismo, in Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina, C.R.T., Roma, 2004, p. 136-7).
Questa concezione era gravida di conseguenze nefaste. Si può rintracciare in essa l’origine del pangermanesimo e, aggiungendovi, anzi semplicemente accentuando, il concetto di razza, vi si può scoprire l’origine del nazismo (un popolo, una nazione, una lotta). Il sionismo nascente aderì a questa concezione. Secondo Theodor Hertzl, il fondatore del sionismo, gli ebrei, ovunque essi si trovassero, non appartenevano alle nazioni in cui vivevano e non dovevano aderire al patto democratico dei cittadini della loro nazione, ma dovevano far valere la loro origine, la loro storia, il loro sangue e prestare fedeltà solo alla nazione ebraica, indipendentemente dalla lingua che parlassero e dalla cultura a cui appartenessero. La nazione ebraica doveva quindi separarsi dalle altre e fondare un proprio stato. Questo stato si pensò di fondarlo in Argentina, in Africa, poi, infine, si decise per la Palestina. Il sionismo non era in origine un movimento religioso ma tuttavia scelse la Palestina proprio per il richiamo religioso che la « Terra di Israele » esercitava sugli ebrei di fede giudaica. Lo studioso sionista tedesco Hans Kohn riconosce apertamente la derivazione del sionismo dalla concezione di nazione di origine germanico-romantica. Egli afferma che il pensiero di Hertzl derivava proprio dalle « fonti germaniche » che egli così sintetizza:
Secondo la teoria tedesca, la gente di origine comune (…) dovrebbe formare uno stato comune. Il Pan-Germanesimo si fondava sull’idea che tutte le persone di razza, sangue e origine germanici, ovunque vivessero e a qualunque stato appartenessero, dovevano la loro fedeltà principalmente alla Germania e dovrebbero diventare cittadini dello stato tedesco, la loro vera patria. Essi, e addirittura i loro padri e antenati, potevano essere vissuti sotto cieli ‘stranieri’ o in ambienti ‘diversi’, ma la loro ‘realtà’ interiore profonda rimaneva tedesca. (Hans Kohn, citato in Norman Finkelstein, Op. Cit., p.8).
Si provi ad immaginare per un attimo a cosa sarebbe successo se tutti i popoli avessero adottato questa concezione. Non sono bastate le innumerevoli guerre etniche fratricide che hanno avuto luogo nei Balcani da oltre un secolo? L’esempio della Jugoslavia tra il 1990 e il 2000 è ancora vicino a noi e ci permette di comprendere l’assurdità di questa concezione. Non per niente la comunità internazionale si è mobilitata per ripristinare (assai ipocritamente in verità) il rispetto delle minoranze, l’inammissibilità delle pulizie etniche e il principio degli stati multi-etnici. Si pensi al Ruanda e al genocidio dei tutsi da parte degli hutu. Si pensi allo sterminio degli armeni da parte dei turchi. Cosa succederebbe oggi se il principio degli stati etnici fosse seguito in Cina, in India e nella stessa Europa? Il sionismo ha seguito questo principio. La storia successiva della pulizia etnica dei palestinesi era già inscritta in questo tipo di nazionalismo dall’inizio.
Sionismo come « socialismo » nazionale pseudo-liberale.
Un elemento che ha contribuito a fare la fortuna del sionismo, soprattutto catturando l’immaginazione di quella sinistra che da tempo ha abbandonato il marxismo, è stato quello di essersi presentato, almeno fino al 1977, data del primo governo della destra in Israele, come «socialismo» nazionale (anche se, dopo i governi di destra in Israele - quelli di Begin, di Shamir, di Netanyahu e di Sharon - dopo la scomparsa dei kibbutz e di ogni traccia di ‘socialismo’, le illusioni della sinistra sono dure a morire, come la pigrizia mentale d’altronde). Scrive sempre Zeev Sternhell sul ‘socialismo’ nazionale:
L’ideologia del socialismo nazionale nasce in Europa tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Si propone come la vera soluzione, puntando a sostituire le ideologie marxista e liberale. Il suo postulato – il primato della nazione – trova le premesse nel socialismo premarxista di Proudhon. E’ un’ideologia che presenta la nazione come un’entità storica, culturale o biologica. Per preservare il suo avvenire e proteggersi dalle forze che scalzano la sua armonia, la nazione deve consolidare la sua unità interna, spingendo tutte le sue componenti alla missione comune. Per questa nuova ideologia, il liberalismo e il marxismo costituiscono il più grande pericolo che, nel mondo moderno, minacciano la nazione. Il liberalismo, perché concepisce la società come un’aggregazione di individui in eterna lotta per un posto al sole, una sorta di mercato selvaggio, la cui sola ragione d’esistenza è di soddisfare gli egoismi dei singoli, quelli dei più forti ovviamente e il marxismo, perché sostiene che la società è divisa in classi nemiche impegnate in una lotta senza pietà tanto più inevitabile in quanto iscritta nella logica interna del capitalismo. (Op. Cit., p. 135)
Il « socialismo » nazionale rifiuta categoricamente la lotta di classe e l’internazionalismo proletario. La sua singolarità consiste nel fatto che esso aderisce al principio del primato della nazione, la quale è posta in posizione assolutamente prevalente rispetto a qualsiasi altro aspetto, rinnegando così i principi universalistici del socialismo. Tuttavia, se pure rinnega il marxismo, il ‘socialismo’ nazionale non rinuncia a voler risolvere a suo modo la questione sociale. Rifiutando i principi marxisti, primo fra tutti l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il « socialismo » nazionale afferma di voler risolvere la questione sociale con una critica ai settori parassitari del capitale, alla rendita, alla grande finanza, agli speculatori, ai borsisti, a tutti coloro che dispongono facilmente di denaro e non lo investono attivamente creando posti di lavoro e facendo crescere la società e la nazione. Costoro vengono definiti, parassiti, plutocrati, usurai, perché si arricchiscono solo loro senza benefici per la nazione. Ci si rivolge al « lavoratore » (certo non al « proletario », naturalmente), al contadino, al negoziante, all’artigiano e a quei settori del capitale produttivo, il borghese ‘positivo’ che investe e rischia il suo denaro nella produzione. Ovviamente, il « socialismo » nazionale non intende affatto cambiare la società, né mai esso ha preso provvedimenti per eliminare il ceto dei parassiti, degli speculatori, dei finanzieri tanto criticati. Anzi i provvedimenti principali sono diretti contro gli operai, costretti in corporazioni, senza sindacati, senza partiti politici che li rappresentino in modo autonomo. Gli operai vengono invece iscritti, con le buone o con le cattive, nel partito nazionale, associati nelle sue istituzioni, arruolati nell’esercito. Il socialismo « nazionale » è infatti un’ideologia aggressiva che punta alla conquista di territori altrui per metterli a disposizione della propria nazione e per impadronirsi delle loro ricchezza (colonialismo). E’ anche un’ideologia razzista che ritiene la propria nazione superiore alle altre. Nella storia, il « socialismo » nazionale si è realizzato prevalentemente sotto forma di sistema antidemocratico e reazionario, anzi decisamente dittatoriale. La sua forma più brutale è stata il nazismo (Nazional Socialismus), ma anche il fascismo mussoliniano può essere considerato una forma di « socialismo » nazionale. Vi è tuttavia anche una forma di « socialismo » nazionale con caratteristiche pseudo-democratiche. Tale è il sionismo; tali sono certe forme di ‘socialismo’ nazionale nel terzo mondo (la Corea del Sud al tempo degli agglomerati industriali nazionali, prima che questi fossero minati dalla globalizzazione liberista).
Il movimento laburista prese la direzione e il controllo della colonizzazione sionista durante gli anni trenta e al momento della proclamazione di Israele furono i laburisti a guidare politicamente lo stato e a deciderne le strutture sociali ed economiche. Fondamento di questo ordine sociale è l’Histadrut, l’onnipotente corporazione dei ‘lavoratori’ e degli industriali. Non è un sindacato, come spesso si dice, ma una struttura nazionale che inquadra « i lavoratori » e « le altre forze produttive » e affida a tutti la medesima missione nazionale. L’Histadrut possiede banche, imprese nel settore dell’industria pesante, degli armamenti, dei lavori pubblici e delle costruzioni, possiede anche la maggiore centrale nazionale di distribuzione dei prodotti agricoli, catene di grandi magazzini e negozi. L’Histadrut controlla l’intero settore cooperativo, si occupa dei contratti tra lavoratori e le imprese che gli appartengono, gestisce direttamente la Cassa Malattia Nazionale, dispone di ospedali, scuole, case di riposo e pubblica un proprio giornale, il Davar. In Israele solo l’esercito è un’organizzazione più capillare e meglio organizzata dell’Histadrut. Tuttavia, seppur meno capillare dell’esercito, questa istituzione è un vero stato nello stato e fornisce al parlamento gran numero di parlamentari e buona parte degli uomini di governo, di sinistra e sorprendentemente, (per chi ha schemi in testa), anche di destra. Dopo l’Histadrut e l’esercito, vengono le altre istituzioni politiche e sociali che completano il quadro. In seguito alla fondazione di Israele, furono sempre i laburisti a dirigere lo stato, fino agli anni settanta quando persero le elezioni a vantaggio del partito del Likud. Questo è un partito seguace di Wladimir Jabotinsky, amico personale del Duce. [Egli chiese, tra l’altro, a Mussolini, di contribuire alla formazione di un nucleo di ufficiali di marina che sarebbe diventato in seguito la marina di Israele. E, naturalmente, il Duce lo accontentò. Così, tra il 1934 e il 1937, fu aperta a Civitavecchia una scuola marittima per aderenti all’organizzazione sionista « Betar », ramo giovanile del partito di Jabotinsky.]
La destra una volta salita al potere non ha mai combattuto l’Histadrut, il cosiddetto « sindacato », come fa la destra in tutte le democrazie parlamentari e in tutti i regimi capitalistici liberali con i sindacati veri. Questo perché l’Histadrut non è un sindacato ma un’organizzazione nazionale di lavoratori, di capitalisti e di boiardi di stato, i cui dirigenti vengono scelti ogni 4 anni sulla base di liste presentate da tutti i partiti politici. Attualmente i dirigenti laburisti dell’Histadrut detengono una risicata maggioranza interna rispetto ai rappresentanti della destra.
La struttura della società nazionale israeliana è retta da alcune leggi e istituzioni che hanno poco a che vedere con le istituzioni e le leggi di una democrazia liberale. Facciamo alcuni esempi: prima di tutto non esiste in Israele una costituzione, cioè una carta costituzionale.Perché mai? Come mai un paese che si vanta di essere « democratico » anzi l’unica democrazia in Medio Oriente non ha una costituzione? Ebbene Israele non ha una costituzione perché non può averla. Se dovesse provare a scrivere una costituzione laica, gli ebrei religiosi o fanatici, che considerano Israele la realizzazione di una promessa messianica, si rivolterebbero contro lo stato. Se dovesse invece scrivere una costituzione religiosa, moltissimi sarebbero gli ebrei atei o laici che abbandonerebbero il paese per cercare in Occidente quel poco di tolleranza e libertà che vedrebbero sparire del tutto nello stato sionista. Incredibilmente e diversamente da tutte le democrazie liberali, Israele non ha un corpo di leggi che riguarda il potere giudiziario. Anche qui, un corpo di leggi di carattere laico urterebbe contro l’antico codice religioso, l’« Halachà », seguito dai potenti tribunali rabbinici, che si intromettono in tutte le faccende dello stato. In queste condizioni si preferisce procedere come se nulla fosse; se non che, certe leggi sono laiche (quando non urtano troppo i religiosi) ed altre sono religiose (se non urtano troppo i laici). Tutti sanno, per esempio che non esiste il matrimonio laico in Israele, per cui se un cittadino di Israele vuole sposarsi fuori dall’autorità dei rabbini, ebbene… deve farlo all’estero. Potrebbe addirittura farlo in un paese musulmano come la Giordania o la Turchia. Il potere dei rabbini è talmente forte che costoro costringono gli ebrei riformati (una nuova forma di giudaismo nata negli Stati Uniti) a rinunciare alla loro fede se vogliono stabilirsi in Israele. Lo stato sionista li accetta comunque e questo crea un contrasto tra settori dello stato e autorità religiose. I tribunali rabbinici gestiscono gran parte della ‘giustizia’ e naturalmente lo fanno secondo i dettami della religione. Il potere dei rabbini è talmente forte che non esiste in Israele una cittadinanza « israeliana ». Sulle carte di identità si troverà scritto « ebreo » se si è ebreo (laico o religioso non importa); si troverà « arabo » se si è palestinese, cioè ‘cittadino di secondo rango. Si vive nello stesso stato di Israele ma non si è « israeliani »; si è o « ebrei » o « arabi ». Questo ha anche una valenza non religiosa. Se esistesse la cittadinanza « israeliana » questo vorrebbe dire che gli ebrei non israeliani sarebbero considerati o non cittadini di Israele o non ebrei. Lo stato di Israele infatti è uno stato « ebraico », cioè uno stato per tutti gli ebrei del mondo, indipendentemente se essi risiedono in Israele o meno. Inoltre una eventuale carta d’identità con sopra scritto « nazionalità israeliana » metterebbe sullo stesso piano ebrei e palestinesi, cosa che in uno stato « ebraico » non deve avvenire. Questo è il retaggio assurdo del sionismo.
La natura del sionismo si esplicita soprattutto, forse, in un’altra legge, « la legge del ritorno ». Essa dà diritto a tutti gli ebrei del mondo di emigrare in Israele ma, contemporaneamente, nega lo stesso diritto ai palestinesi che sono stati espulsi. Il fatto che la « Terra d’Israele » sia stata destinata, per legge, all’esclusivo godimento degli ebrei (di tutto il mondo) ha un’altra assurda conseguenza: un arabo o un gentile (cioè un non-ebreo, detto goy, o goyim in ebraico) d’Europa o d’America non può acquistare proprietà ebraica in Israele. Si può capire (ma non approvare) la ragione per cui si impedisca ad un arabo, palestinese o non, di acquistare una casa o una terra in Israele; si vuole impedire, cioè, che la terra d’Israele possa ridiventare araba. Quindi un palestinese espulso da Israele nel 1948 (o i suoi discendenti) non possono acquistare la casa e le proprietà che gli furono tolte durante la sua espulsione. Ma non è tutto. Un arabo israeliano può acquistare proprietà solo da altri arabi israeliani, mai da un ebreo; non può neanche acquistare terre sequestrate ai palestinesi dei territori occupati (queste devono andare solo agli ebrei); solo un ebreo invece può acquistare da un arabo israeliano e solo un ebreo ha il titolo di ricevere (quasi gratuitamente) proprietà palestinesi sequestrate dallo stato israeliano nei territori occupati. Ma non basta ancora; se un goy, che vive fuori da Israele, volesse acquistare in Israele una villetta o un appezzamento di terreno per costruirvi un albergo o semplicemente per coltivarlo, non potrebbe farlo. La proprietà della terra e delle case deve restare in mani ebraiche, altrimenti si rischierebbe sempre di perdere l’ebraicità della terra d’Israele. Potrebbe succedere, per esempio, che una organizzazione di carattere umanitario raccogliesse dei fondi e acquistasse terre e proprietà in Israele e poi le lasciasse in eredità ad alcuni profughi palestinesi del Libano o di altrove. Non sia mai! I risultati della pulizia etnica sarebbero vanificati. Si osservi il seguente paradosso: è ovvio che un ebreo israeliano può acquistare proprietà in Europa, America o altrove (molti israeliani hanno proprietà in due paesi) ma un goy che vive fuori da Israele non può acquistare proprietà in Israele. Cosa succederebbe se fosse proibito a un ebreo di qualsiasi paese di acquistare proprietà in un paese qualsiasi diverso da Israele? Sarebbe naturalmente ritenuto antisemitismo da tutti gli ebrei del mondo. Ma Israele non pratica forse una discriminazione simile o molto simile all’antisemitismo contro gli arabi e i non-ebrei?
Dal punto di vista politico le cose non stanno meglio. Vi è infatti una legge che impedisce a qualsiasi partito o gruppo che non accetta i principi del sionismo di presentarsi in parlamento o di competere nella campagna elettorale. Se un gruppo di ebrei o arabi israeliani o misto si presentasse alle elezioni con un programma politico finalizzato alla trasformazione dello stato sionista in uno stato democratico per ebrei e palestinesi, esso verrebbe immediatamente escluso dalla competizione elettorale e messo al bando. Vige poi un sistema elettorale assolutamente antidemocratico e discriminatorio nei confronti dei cittadini arabi di Israele (20% della popolazione). Secondo questo sistema, alle elezioni politiche, non si vota per candidati ma solo per partiti, non ci sono cioè preferenze. Sono poi i dirigenti dei partiti che decidono chi debba andare alla Knesset (parlamento). In questo modo le direzioni dei partiti discriminano pesantemente verso i palestinesi e portano al parlamento solo un numero limitato di rappresentanti palestinesi rispetto al numero dei votanti palestinesi. In questo modo si fa votare i palestinesi per i sionisti. Ci si aspetterebbe che quel 20% di elettori palestinesi fossero rappresentati dal 20% di deputati. In realtà i deputati palestinesi non superano mai il 10% degli eletti in parlamento.
Ma la cosa più abnorme è chiaramente il fatto che lo stato sionista non ha ancora confini definiti. Sembrerebbe una cosa da niente ma ha conseguenze assolutamente importanti e non solo ripercussioni internazionali. In una democrazia liberale come la Francia o la Gran Bretagna, tutti gli individui che si trovano all’interno dei confini dello stato godono degli stessi diritti politici. Questo non accade in Israele. Dopo l’occupazione dei territori palestinesi nel 1967, Israele allargò, unilateralmente, i suoi confini inglobando anche i territori occupati dove oggi vivono quasi 4 milioni di palestinesi. Ma queste persone pur essendo all’interno dei confini che Israele riconosce come suoi (e provate ad attraversarli e vedrete cosa vi succede!) non hanno mai goduto dei diritti di cui godono gli ebrei e nemmeno dei diritti dei già discriminati arabi israeliani. Viceversa gli ebrei che vivono fuori dai confini riconosciuti a Israele dalla comunità internazionale e che si sono stabiliti nei territori occupati godono degli stessi diritti degli ebrei di Israele, anzi ricevono particolari vantaggi economici e legislativi proprio perché si sono stabiliti nei territori occupati. Con le « trattative » di Oslo, Israele ha pensato di risolvere questa contraddizione razzista. Si è visto come è andato a finire, per Sharon e Olmert, ma anche per i laburisti, cioè per tutti i sionisti, Israele deve continuare a conservare gli stessi confini raggiunti dopo la guerra del 1967 (la risoluzione 242 dell’ONU sancisce invece che lo stato ebraico deve ritornare ai confini di prima del 1967). Così lo stato dei palestinesi, se mai sorgerà, sarà costituito dall’8% della loro patria storica e verrà racchiuso, col Muro dell’Apartheid, dentro il territorio israeliano. Esattamente la stessa cosa che stava succedendo ai bantustans neri entro la Repubblica Sudafricana di De Clerck e soci razzisti. La lotta sionista è sempre stata la lotta per prendere la terra dei palestinesi, senza i palestinesi e l’anomalia tutta israeliana, che cioè i due partiti, il laburista e il likud, sia in alternanza al governo sia più spesso uniti, pratichino la stessa identica politica di pulizia etnica e di discriminazione contro i palestinesi prova che questi partiti hanno buttato alle ortiche i principi di uguaglianza tra tutte le persone ed agiscono discriminando in base alla razza e la religione delle persone che vivono in Palestina. Fanno questo in nome degli interessi supremi della nazione ebraica e dello stato-nazione sionista. Come può Israele aspirare a diventare un paese normale?! Come può la comunità internazionale definire Israele uno stato « democratico » e accoglierlo nel suo seno permettendogli di fare tutto ciò che vuole?! In realtà quando l’Occidente parla di « comunità internazionale » intende solo se stesso. La vera comunità delle nazioni non ha mai veramente e in modo democratico e rappresentativo sancito la nascita di Israele. La risoluzione sulla spartizione della Palestina, la 181, fu imposta ai palestinesi quando l’ONU era costituito da soli 56 paesi [oggi sono 191] e fu votata a maggioranza ristretta da paesi che nel 1947 non rappresentavano più del 18% della popolazione mondiale di allora.
Sionismo e antisemitismo
Abbiamo parlato dell’odio che i sionisti hanno per gli ebrei assimilazionisti, a ragione del loro rifiuto di emigrare in Israele. Quest’odio traspare evidente dalla lunga intervista che un personaggio molto vicino a Sharon concesse allo scrittore Amos Oz nel 1982, poco dopo la conclusione dell’avventura militare israeliana in Libano:
Se anche lei mi provasse – dice il nostro sionista all’intervistatore - con matematica precisione che l'attuale guerra nel Libano è una sporca guerra immorale, non m'importerebbe. Dirò di più: anche se lei mi provasse che noi non abbiamo raggiunto e non raggiungeremo mai alcuno dei nostri obbiettivi in Libano, e che neppure potremo creare in Libano un regime amico né sconfiggere i siriani e neppure 1'OLP, nemmeno allora mi importerebbe. Questa guerra valeva comunque la pena di farla. Anche se la Galilea venisse di nuovo bombardata dai ‘katjusha’ entro un anno, anche di questo in fondo non m'importerebbe. Noi cominceremmo un'altra guerra, uccideremmo e distruggeremmo ancora e ancora finché quelli ne avranno abbastanza. E lo sa lei perché ne vale la pena? Perché sembra che questa guerra ci abbia reso ancora più impopolari presso il cosiddetto mondo civile.
Non sentiremo più ripetere le assurdità sulla famosa moralità ebraica, sulla lezione morale dell'olocausto o sulla immagine di purezza e virtù degli ebrei emersa dalle camere a gas. Facciamola finita. La distruzione di Eyn Hilwe (è un peccato che non abbiamo spazzato via del tutto questo nido di calabroni [ si tratta di un villaggio libanese, n.d.t.] ), il salutare bombardamento di Beirut e quel modesto massacro (si può chiamare massacro l'uccisione di cinquecento Arabi nei loro campi?) che avremmo dovuto compiere con le nostre delicate mani invece di lasciarlo fare ai falangisti, queste ottime operazioni hanno troncato finalmente tutti quei merdosi discorsi su ‘un popolo eccezionale, faro per tutte le nazioni’. Basta con questo popolo eccezionale, buono, faro di civiltà, sbarazziamocene.
Personalmente non desidero affatto essere migliore di Komeini o di Breznev, o di Gheddafi, di Assad o della signora Thatcher e nemmeno di Harry Truman che ammazzò mezzo milione di giapponesi con due belle bombe. Io voglio solo essere più intelligente, più veloce e più efficiente di loro, non più buono o più bello.. secondo lei i cattivi di questo mondo se la passano male? se qualcuno prova a toccarli, quelli gli tagliano le mani e anche le gambe, sono cacciatori che inseguono e acchiappano tutto quello che gli par buono da divorare. E non soffrono di indigestione e il Cielo non li punisce. Io voglio che Israele si associ a questo club cosi, forse, alla fine il mondo comincerà a temermi invece di compatirmi. Forse allora cominceranno a tremare, a temere il mio furore invece che ammirare la mia nobiltà. Grazie a Dio! Lasciateli tremare, lasciate che ci chiamino uno stato aggressivo, lasciate che capiscano che siamo un paese selvaggio, pericoloso per i popoli che ci circondano, non normale, e che potremmo diventare feroci se uccidono uno dei nostri figli, anche uno solo. Lasciate che pensino che potremmo perdere ogni controllo e bruciare tutti i pozzi petroliferi del Medio Oriente. Se, Dio non voglia, succedesse qualcosa a suo figlio, lei parlerebbe come me. Si rendano conto a Washington, a Mosca, a Damasco, in Cina che se uno dei nostri ambasciatori venisse ammazzato o anche un console o uno dei giovanissimi addetti d'ambasciata, noi potremmo scatenare la terza guerra mondiale solo per questo. (…)
Mi lasci dire qual è la cosa più importante, il frutto più dolce della guerra in Libano: è che loro ora, non solo odiano Israele, ma grazie a noi odiano anche quei feinschmecker [palati delicati, n.d.t.] di ebrei di Parigi, Londra, New York, Francoforte, Montreal che se ne stanno nei loro gusci. Alla fine ora odiano anche queste belle anime di Yids che dicono di essere diversi da noi di non essere come Thugs israeliani, ma ebrei puliti ed educati. Ma non gli servirà a niente, a questi Yids cosi per benino, come non è servito all'ebreo assimilato di Vienna e di Berlino che pregava gli antisemiti di non confonderlo con i vocianti e puzzolenti giudei dell'est, perché lui si era liberato dai costumi degli sporchi ghetti di Ucraina e Polonia. Lasciamoli gridare che loro condannano Israele, che sono nel giusto, che non vogliono far del male nemmeno a una mosca, che preferiscono essere ammazzati che ammazzare, che si sono assunti il compito di mostrare ai gentili come essere buoni cristiani porgendo sempre l'altra guancia.. Questo non gli porterà alcun vantaggio. Ora stanno subendo questo odio a causa nostra. E io le confesso che per me questo è un piacere. Questi sono gli stessi Yids che hanno convinto i gentili a capitolare di fronte a quei bastardi di vietnamiti, a mollare di fronte a Komeini, a Breznev, a impietosirsi per lo sceicco Yamani a causa della sua difficile infanzia e a fare l'amore e non la guerra. O magari a non fare né l'una né l'altra cosa, piuttosto a scrivere un saggio sull'amore e sulla guerra. Con tutto questo abbiamo chiuso. L'ebreo è stato respinto, non solo ha crocefisso Gesù, ma ha crocefisso anche Arafat a Sabra e Chatila, ormai essi sono identificati con noi e questa è una cosa buona, i loro cimiteri vengono dissacrati, le loro sinagoghe incendiate, tutti gli epiteti sono stati rispolverati, vengono espulsi dai club esclusivi, la gente spara contro i loro ristoranti etnici, uccidendo anche i bambini, costringendoli a cancellare tutte le insegne ebraiche, costringendoli ad andarsene o a cambiare professione.
Ben presto i loro palazzi verranno coperti da slogan: Yids, andate in Palestina e sa che le dico? Loro verranno in Palestina perché non avranno altra scelta! Questo è il vantaggio che abbiamo ricevuto dalla guerra in Libano. Mi dica, non valeva la pena? Presto avremo tempi migliori. Gli Ebrei cominceranno ad arrivare, gli israeliani smetteranno di andar via e coloro che se ne sono già andati torneranno. Quelli di loro che hanno scelto l'assimilazione capiranno finalmente che non gli serve a niente cercare di essere la coscienza del mondo. La coscienza del mondo si prenda nel culo quello che non gli è entrato nella testa. I Gentili si sono sempre sentiti insofferenti verso gli ebrei e la loro coscienza e ora gli Yids hanno una sola via d'uscita, tornare a casa, tornarci tutti, presto, per installare grosse porte d'acciaio, per costruire una robusta barriera, per avere mitragliatrici posizionate in ogni angolo della loro barriera e combattere come diavoli contro chiunque osi alzare la voce contro questo paese. E se qualcuno alza la mano contro di noi gli porteremo via metà della sua terra e bruceremo l'altra metà, incluso il petrolio. Possiamo anche usare le armi nucleari. Andremo avanti finché non ce la faranno più.
Ancora oggi sono disposto a offrirmi volontario per fare il lavoro sporco per Israele, per uccidere quanti Arabi è necessario, per deportarli, per espellerli e bruciarli in modo che tutti ci odino, per togliere il tappeto da sotto i piedi degli ebrei della diaspora cosi che essi siano costretti a correre da noi piangendo. Anche se ciò significa vedere saltare per aria una o due sinagoghe qua e la, non m'importa. E non mi preoccupo se a lavoro finito sarò messo di fronte al tribunale di Norimberga e poi messo in carcere a vita. Impiccatemi se volete come criminale di guerra. Cosi voi potete ripulire la vostra ebraica coscienza ed entrare nel rispettabile club delle nazioni civili, che sono ampie e sane. Ciò che voi tutti non capite è che il lavoro sporco del sionismo non è ancora finito. Siamo ancora lontani dalla fine. E' vero, avrebbe potuto essere finito nel 1948, ma voi avete interferito, lo avete fermato. E tutto questo a causa della ebraicità delle vostre anime, a causa della vostra mentalità di diaspora. (…) Perciò sono contento che questa piccola guerra in Libano abbia spaventato gli Yids. Si spaventino pure, soffrano, cosi si affretteranno a tornare a casa prima che venga buio del tutto. Per questo, io sarei un antisemita? Bene. Allora non citi me, citi Lilienblum che non è sicuramente antisemita, tanto è vero che una strada di Tel Aviv porta il suo nome.
(l’intervistato cita leggendo in un quadernetto che era sul suo tavolo)
Tutto ciò che sta accadendo non è forse un segno che i nostri antenati vollero e noi stessi vogliamo, essere perseguitati, che a noi piace vivere come zingari..
e questo è Lilienblum a dirlo, non io. Mi creda ho studiato la letteratura sionista, posso provare quello che dico. E scriva pure che io sono una disgrazia per l'umanità. Non me ne importa, anzi. Facciamo un patto: io farò tutto il possibile per espellere gli Arabi da qui. Io farò tutto il possibile per incrementare l'antisemitismo e lei scriverà poesie e saggi sull'infelicità degli Arabi e si preparerà ad assorbire gli Yids che io costringerò a rifugiarsi in questo paese e ai quali insegnerò ad essere un faro per i Gentili. Cosa ne dice? (Intervista pubblicata sul quotidiano israeliano Davar, il 17 dicembre 1982. http: //www. counterpunch.org/pipermai1/counterpunch-1ist/2001-September/013054.htm1)
L’intervista che abbiamo appena letto è vera al cento per cento, ce lo garantisce lo scrittore Amos Oz, tra l’altro un sionista lui stesso, il quale però si rifiutò di dire il nome della persona intervistata in quanto per poter raccogliere i suoi propositi Oz aveva promesso che non avrebbe mai svelato il nome. Si è a lungo discusso se l’intervistato non fosse in realtà proprio Sharon e si è detto che Oz non abbia voluto svelare il nome per ragioni politiche visto che il personaggio era allora ai vertici della politica israeliana. I propositi sionisti sono stati attribuiti a Shlomo Baum o a Motta Gur, personaggi vicinissimi ideologicamente a Sharon. Il primo, non solo ideologicamente visto che negli anni ’50 era il vice di Sharon nella famigerata Unità 101, diretta proprio da Sharon, un reparto speciale dell’esercito che si macchiò di varie stragi a Gaza e in Cisgiordania. Chi sia la persona intervistata, in realtà, non ha molta importanza. Le cose importanti da dire sono prima di tutto che l’intervista è sicuramente vera, e poi che i contenuti dell’intervista corrispondono ad un modo di pensare che non è fuori dal mondo ma al centro del sionismo, una volta che esso viene sfrondato dalla sua retorica. Quest’ultimo fatto è confermato dallo stesso Oz che successivamente all’intervista affermò di aver ricevuto lettere di numerose persone le quali « si presero il fastidio di scrivere per esprimere la loro totale identificazione con le parole del personaggio » [appendice alla traduzione inglese dell’intervista, apparsa in The Land of Israel, London, 1983, pp. 85-100; traduzione e corsivo miei]. Il personaggio, comunque, ci spiega molto chiaramente che sono i sionisti i primi ad odiare quegli ebrei che si rifiutano di emigrare in Israele e che vogliono integrarsi nel paese d’origine. Egli ci spiega anche come l’antisemitismo sia funzionale, anzi indispensabile al sionismo, perché esso spinge gli ebrei in Palestina. Anzi egli dice che vuole fare « il lavoro sporco » perché si sviluppi l’antisemitismo e questo spaventi gli ebrei assimilazionisti e li spinga in Palestina.
Se i sionisti hanno così tanto bisogno dell’antisemitismo è forse sorprendente che si siano alleati con i peggiori antisemiti della storia? E’ sorprendente che essi accusino gli ebrei marxisti, internazionalisti o assimilazionisti di essere « palati delicati », « ebrei puliti ed educati » o peggio « ebrei che odiano se stessi »? Il sionista intervistato vuole attizzare l’antisemitismo, vuole far odiare gli ebrei per farli fuggire in Israele, per farli contribuire ad ulteriori pulizie etniche, ulteriori massacri di palestinesi. D’altronde il binomio sionismo-antisemitismo era contenuto nella definizione stessa del nazionalismo ebraico. Fin dall’inizio della sua affermazione, l’approccio sionista alla questione ebraica sembrava calcato sulla teoria antisemita. Come gli antisemiti, i sionisti sostenevano che gli ebrei costituivano una presenza estranea nelle società europee le quali « appartenevano » per diritto naturale alle popolazioni prevalenti. L’antisemitismo era anzi per loro una cosa non del tutto negativa in quanto costituiva l’impulso naturale di una società organica che si sentiva minacciata, quasi « infettata » da una comunità estranea, un corpo alieno. D’altra parte l’antisemitismo aveva decisamente l’aspetto positivo (per i sionisti) di operare contro l’assimilazione degli ebrei nel corpo sociale prevalente. L’assimilazione era temuta dagli antisemiti ma era anche quello che temevano i sionisti, cioè che gli ebrei perdessero le loro caratteristiche culturali, religiose e di razza, fondendosi con i popoli. Al contrario, i sionisti lottavano perché gli ebrei conservassero integro tutto il loro patrimonio. Solo se le società prevalenti rigettavano, con il loro antisemitismo, tutti gli ebrei sarebbe stato possibile ai sionisti convincerli ad emigrare in Palestina e costituire lo stato per soli ebrei. Una società liberale, democratica e tollerante che avesse incoraggiato l’integrazione e l’assimilazione degli ebrei nel suo grembo avrebbe rappresentato per il sionismo la più grande minaccia. Il sionismo non ha mai cercato di combattere l’antisemitismo (solo gli ebrei assimilazionisti hanno interesse a farlo e lo fanno effettivamente). Esso ha più che altro cercato un modus vivendi con l’antisemitismo. Da qui la collaborazione col nazismo e col fascismo a cui abbiamo accennato. Da qui le sorprendenti frasi che riportiamo di seguito, con i loro autori, e che possono essere comprese solo se si tiene in debito conto la vera natura del sionismo che noi abbiamo cercato di smascherare.
“Ogni paese può assorbire solo un numero limitato di ebrei, se non vuole avere disturbi nello stomaco. La Germania ha già troppi ebrei.” [Chaim Weizman, presidente dell'Organizzazione sionista mondiale, futuro presidente di Israele, (1912) citato in Lenni Brenner, “Zionism in the Age of the Dictators”, cap. 3].
“Anche noi siamo d'accordo con l'anti-semitismo culturale, in quanto che noi crediamo che i tedeschi di fede mosaica siano un fenomeno indesiderabile e demoralizzante.” [Chaim Weizman, presidente dell'Organizzazione sionista mondiale e futuro presidente di Israele, “The letters and papers of Chaim Weizman”, Letters, Vol. 8, p. 81, 1914].
“L'ebreo è una caricatura di un essere umano normale e naturale, sia fisicamente che spiritualmente. Come individuo nella società si rivolta e butta via le briglie degli obblighi sociali, egli non conosce né ordine, né disciplina.” [Our Shomer “Weltanschauung”, articolo scritto nel 1917 e pubblicato nel dicembre 1936 in Hashomer Hatzair, p, 26, organo dell'Organizzazione Giovanile Sionista].
“Noi ebrei, noi i distruttori, rimarremo dei distruttori per sempre. Nulla che voi facciate darà soddisfazione ai nostri bisogni e alle nostre esigenze.Noi distruggeremo sempre perché noi abbiamo bisogno di un mondo tutto nostro, un mondo divino, che non è nella vostra natura di poter costruire ... quelli tra di noi che non riescono a capire questa verità saranno sempre gli alleati delle vostre fazioni ribelli, fin quando non giungerà la disillusione, il destino maledetto che ci sparse in mezzo a voi ci ha assegnato questo sgradito ruolo.” [Maurice Samuel, “You Gentiles”, p. 155,1924].
“Se noi [sionisti, ndt] non ammettiamo che gli altri abbiano il diritto di essere anti-semiti, allora noi neghiamo a noi stessi il diritto di essere nazionalisti. Se il nostro popolo merita e desidera vivere la propria vita nazionale, è naturale che si senta un corpo alieno costretto a stare nelle nazioni tra le quali vive, un corpo alieno che insiste ad avere una propria distinta identità e che perciò è costretto a ridurre la sfera della propria esistenza. E' giusto, quindi, che essi [gli anti-semiti,ndt] lottino contro di noi per la loro integrità nazionale. Invece di costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dagli anti-semiti, i quali vogliono ridurre i nostri diritti, noi dobbiamo costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dai nostri amici che desiderano difendere i nostri diritti.” [Jacob Klatzkin, (1925), citato in Jacob Agus, “The Meaning of Jewish History”, in “Encyclopedia Judaica”, vol II, p. 425].
“Ho elaborato una filosofia del Giudaismo affine alla Tendenz spirituale del Fascismo molto prima che quest'ultimo fosse diventato la regola nella società politica italiana.” [Alfonso Pacifici ideologo del sionismo italiano, intervistato da Guido Bedarida, 1932].
“Per i sionisti, il nemico è il liberalismo; esso è anche il nemico per il nazismo; ergo, il sionismo dovrebbe avere molta simpatia e comprensione per il nazismo, di cui l'anti-semitismo è probabilmente un aspetto passeggero.” [Harry Sacher, Jewish Review, settembre 1932, p. 104, Londra].
“L'hitlerismo ... ci ha reso per lo meno un servizio dal momento in cui non ha tracciato una linea di demarcazione tra l'ebreo religioso e l'ebreo apostata. Se Hitler avesse fatto eccezione per gli ebrei battezzati [al cristianesimo], avremmo assistito allo spettacolo poco edificante di migliaia di ebrei che correvano a battezzarsi. L'hitlerismo ha forse salvato l'ebraismo tedesco, che stava assimilandosi fino all'annichilimento.” [Chaim Bialik, “Palestine and the Press, New Palestine, 11 dicembre 1933].
“Vi dico che voi siete più potenti del Signor Hitler (...) noi tutti lo seppelliremo. Ma dovete creare uno Stato ebraico. Sono sionista, io. L'ho detto già al Dr. Weizmann. Dovete avere un vero Stato ebraico e non il ridicolo Home National che gli inglesi vi hanno offerto. Vi aiuterò a creare uno Stato ebraico. La cosa più importante è che gli ebrei abbiano fiducia nel loro avvenire e non si lascino spaventare da quell'imbecille di Berlino”. [Benito Mussolini a Nahum Goldman dell'Agenzia Ebraica internazionale (sionista), il 12 novembre 1934].
“E' un fatto innegabile che gli ebrei presi collettivamente sono infermi e neurotici. Quei professionisti ebrei che, colpiti sul vivo, negano sdegnosamente questa verità sono i più grandi nemici della loro razza, perchè guidano gli altri ebrei alla ricerca di false soluzioni, o, al massimo, di palliativi.” [Ben Frommer, sionista revisionista, (1935), “The Significance of a Jewish State”, in Jewish Call, maggio 1935, p. 10].
“I membri delle organizzazioni sioniste non devono essere, date le loro attività dirette verso l'emigrazione in Palestina, trattati con lo stesso rigore che invece è necessario nei confronti dei membri delle organizzazioni ebraico-tedesche (cioè gli assimilazionisti).” [Circolare della Gestapo bavarese indirizzata al corpo di polizia bavarese, 23 gennaio, 1935, pubblicata in Kurt Grossman, “Zionists and Non-Zionists under Nazi Rule in the 1930's”, Herzl Yearbook, vol VI, p. 340].
“Il momento non può più essere lontano ormai in cui la Palestina sarà in grado di nuovo di accogliere i suoi figli che aveva perduto da oltre mille anni. I nostri buoni auguri e la nostra benevolenza ufficiale li accompagnino.” [Reinhardt Heyndrich, capo dei Servizi Segreti delle SS, “The Visible Enemy”, articolo pubblicato in Das Schwarze Korps, organo ufficiale delle SS, maggio 1935].
“Hitler tra qualche anno sarà dimenticato, ma avrà un bellissimo monumento in Palestina. Sapete, la venuta dei nazisti è stato un avvenimento piuttosto benvenuto. Vi erano tanti dei nostri ebrei tedeschi che pendevano tra due sponde; tanti di loro navigavano nella corrente ingannatrice tra la sponda di Scilla dell'assimilazione e quella di Cariddi di una conoscenza compiaciuta delle cose ebraiche. Migliaia di loro che sembravano completamente perduti per l'ebraismo furono riportati all'ovile da Hitler, e per questo io sono personalmente molto riconoscente verso di lui.” [Emil Ludwig, intervistato da Meyer Steinglass, “Emil Ludwig before the Judge”, American Jewish Times, aprile, 1936, p. 35].
“Uno stato costruito sul principio della purezza della nazione e della razza (cioè la Germania Nazista) può solo avere rispetto per quegli ebrei che vedono se stessi allo stesso modo.” [Joachim Prinz, (1936), citato in Benyamin Matuvo, “The Zionist Wish and the Nazi Deed”, Issues, (1966/67), p. 12].
“Le speranze dei sei milioni di ebrei europei si fondano sull'emigrazione. Mi è stato chiesto: 'Puoi portare sei milioni di ebrei in Palestina?' Ho risposto, 'No' ... Dal profondo della tragedia voglio salvare ... dei giovani [per la Palestina]. I vecchi passeranno. Sopporteranno il loro destino o non lo faranno. Sono polvere, polvere economica e morale in un mondo crudele ... Solo il ramo giovane sopravviverà. Dovranno accettarlo.” [Chaim Weizmann, futuro primo presidente di Israele, nel discorso al Congresso Sionista del 1937 nel quale riporta le sue risposte davanti alla Commissione Peel, Londra, luglio 1937. Citato in 'Yahya', p. 55].
“Per i sionisti era molto disagevole operare. Era moralmente imbarazzante sembrare essere considerati i figli prediletti del governo Nazista, in particolare proprio nel momento in cui esso scioglieva i gruppi giovanili (ebraici) antisionisti, e sembrava preferire per altre vie i sionisti. I nazisti chiedevano un 'comportamento più coerentemente sionista'.” [Joachim Prinz, “Zionism under the Nazi Government”, in Young Zionist, Londra, novembre 1937, p. 18].
“Lo stato sionista deve essere fondato con ogni mezzo e appena possibile ... Quando lo stato ebraico sarà stato fondato secondo le attuali proposte contenute nel documento della Commissione Peel, e in linea con le promesse parziali dell'Inghilterra, allora i confini potranno essere spostati ulteriormente in avanti secondo i nostri desideri.” [Feivel Polkes a Adolf Eichman, citato in Klaus Polkehn, “The Secret Contacts: Zionism and Nazi Germany 1933-41”, Journal of Palestine Studies (primavera 1976), p. 74. Citato anche in Lenni Brenner, Op. Cit. cap. 8].
“Se sapessi che è possibile salvare tutti i bambini (ebrei) di Germania portandoli in Inghilterra e solo metà di essi portandoli in Eretz Israel, allora opterei per la seconda alternativa.” [Ben-Gurion nel suo discorso ad una assemblea di Sionisti Laburisti in Gran Bretagna nel 1938].
“Per essere un buon sionista uno deve essere in qualche modo un antisemita.” [Chaim Greenberg, “The Myth of Jewish Parasitism”, Jewish Frontiers, marzo, 1942, p. 20].
“Se mi viene chieso, 'Potresti dare una parte dei soldi dell'Unione delle Agenzie Ebraiche per salvare gli ebrei (in Germania), io dico NO! E ripeto NO!” [Izaak Greenbaum – capo del Comitato di Soccorso dell'Agenzia Ebraica (Jewish Agency Rescue Committee) – rivolto al Consiglio Esecutivo Sionista, il 18 febbraio 1943].
“Una mucca in Palestina vale più di tutti gli ebrei in Polonia.” [Izaak Greenbaum – capo del Comitato di Soccorso dell'Agenzia Ebraica (Jewish Agency Rescue Committee) – rivolto al Consiglio Esecutivo Sionista, il 18 febbraio 1943].
“Finanche nel 1943, mentre gli ebrei d'Europa venivano sterminati a milioni, il Congresso americano propose di istituire una commissione per 'studiare' il problema. Il rabbino Stephen Wise, che era il principale portavoce sionista in America, si recò a Washington per testimoniare contro il progetto di legge perché esso avrebbe sviato l'attenzione (degli ebrei) dalla colonizzazione della Palestina. Si tratta dello stesso rabbino Wise che, nel 1938, in quanto dirigente del Congresso ebraico d'America, scrisse una lettera nella quale si opponeva a qualsiasi cambiamento della legislazione americana sull'immigrazione, cambiamento che avrebbe permesso agli ebrei di trovare accoglienza. In quella lettera scriveva: 'Può essere d'interesse per voi sapere che alcune settimane fa i dirigenti delle più importanti organizzazioni ebraiche si sono riuniti in una conferenza ... Vi si è deciso che, in questo momento, nessuna organizzazione ebraica avrebbe sponsorizzato una legge destinata a cambiare in qualsiasi modo la legislazione sull'immigrazione'.” [Citato in Lenni Brenner, “Zionism in the Age of the Dictators”, p. 149].
Abbiamo concluso il nostro viaggio nell’inferno del sionismo. Pur di giungere alla creazione di uno stato ebraico in Palestina, esso si è alleato con i peggiori antisemiti e con lo stesso nazismo. Si ricordino di questo, coloro che con troppa leggerezza ripetono pappagallescamente l’infamante accusa di antisemitismo rivolta da Israele e dai sionisti a coloro che combattono il sionismo. Sono i sionisti che hanno bisogno dell’antisemitismo. Al punto che quando questa vergognosa forma di razzismo non c’è o è molto debole, come ai giorni nostri, i sionisti fanno di tutto per suscitarlo o per gonfiarlo e poterlo sbandierare come reale minaccia e favorire quindi l’emigrazione in Israele, la politica sionista in generale nonché per nascondere i crimini dello stato d’Israele contro i palestinesi. Poco importa ai sionisti se a soffrirne siano i loro stessi fratelli, colpevoli di non essere sionisti come loro e di non volersi macchiare dei crimini di Israele contro i palestinesi e gli arabi
Ebrei antisionisti, vantaggi della Diaspora e l’unica soluzione in Palestina
Bertell Ollman non è l’unico ebreo che si vergogni del tenebroso passato sionista. Non è l’unico ebreo a dichiararsi antisionista. Gli ebrei in Palestina sono circa poco meno, o poco più, di 5 milioni. Ma la popolazione ebraica mondiale supera i 20 milioni. Israele non è mai riuscito quindi a diventare lo stato di tutti gli ebrei e nemmeno della maggioranza di essi. Questo evidentemente perché la maggioranza degli ebrei nel mondo preferisce vivere in Europa, in America, in Russia, in Australia o altrove. Non si sente poi tanto perseguitata. In realtà gli unici ebrei che rischiano molto di più degli altri sono gli ebrei di Israele. Ma non per l’« antisemitismo » degli arabi, che non esiste, ma proprio a causa della pulizia etnica che hanno praticato e praticano contro i palestinesi e tutte le prepotenze che hanno commesso nei confronti degli altri popoli del Medio Oriente. Il mondo che ci descrivono i sionisti, un mondo cioè in cui i popoli del pianeta non aspettano altro se non la minima occasione per scatenare l’antisemitismo e la persecuzione degli ebrei, non esiste. Lo dimostra proprio il fatto che la maggior parte degli ebrei vive tranquilla, anzi tranquilla e in prosperità per lo più, fuori da Israele. La cosa è tanto più vera perché sono moltissimi gli stessi ebrei sionisti, accesi sostenitori del diritto all’esistenza dello stato sionista, che non si sognerebbero nemmeno di andare nello « stato ebraico » accontentandosi da una parte, certo, di fare nel paese in cui vivono gli interessi di Israele, ma dall’altra, godendo tutti i vantaggi dell’essere ebrei della Diaspora. Perché allora lo stato sionista? I sionisti rispondono che esso dovrebbe servire come ultimo baluardo contro il pericolo, sempre reale, secondo loro, di un nuovo Olocausto. Ma si contraddicono da soli. Quando paventano un nuovo olocausto, i sionisti non si riferiscono tanto ad una minaccia proveniente dall’Occidente, quanto ad una minaccia « molto concreta » proveniente dai popoli arabi. I popoli arabi, essi dicono, non vogliono gli ebrei in Palestina, vogliono « buttarli a mare ». Questo, secondo i sionisti, è il significato dell’appello degli arabi di « distruggere Israele », di « spazzarlo via dalla carta geografica ». Gli arabi, secondo Israele, vogliono « uccidere tutti gli ebrei », vogliono compiere « un nuovo Olocausto ». I sionisti sostengono inoltre che gli arabi covano questo progetto criminale, non perché Israele ha preso la terra dei palestinesi (quella sarebbe una scusa) ma in verità perché essi sono « antisemiti ». Perché allora, con la fondazione di Israele, andarsi a buttare in braccia ad un coacervo di popoli « antisemiti »? Israele, nella sua propaganda (perché di vera e propria propaganda si tratta) si rivolge all’Occidente, il quale è stato storicamente la culla dell’antisemitismo, nella sua storia ha perseguitato realmente gli ebrei, e infine ha compiuto l’Olocausto. E rivolgendosi a questo Occidente, attribuisce volontà di sterminio ad un Oriente arabo e musulmano che invece in tutto il suo passato non ha mai perseguitato gli ebrei, che non ha mai compiuto olocausti. Un Oriente che ha, semmai, accolto gli ebrei cacciati dalla Spagna (1492) e da altre parti d’Europa. Gli storici hanno dimostrato che è proprio nel mondo arabo e musulmano che è fiorito il meglio della cultura ebraica; nella Spagna prima del 1492, nell’impero Ottomano, in Turchia, a Baghdad, a Damasco, in Marocco. E mentre in Occidente gli ebrei, in parte si auto-escludevano e, in parte venivano esclusi dalle correnti di pensiero e dalla cultura occidentale, in Oriente e in Nord Africa essi si inserivano armoniosamente nelle culture islamiche e davano, per secoli, un contributo apprezzato e ben accolto a tutte le correnti di pensiero che in quelle regioni si sviluppavano. In Occidente, solo dopo la rivoluzione francese e la duplice emancipazione degli ebrei dalle autorità religiose delle loro comunità e dall’oppressione degli stati monarchici cristiani sulle comunità, gli ebrei hanno potuto dare il loro contributo alle rivoluzioni sociali e politiche, agli sviluppi scientifici e culturali degli ultimi 200 anni.
La storia dice che gli arabi non sono mai stati antisemiti; in Oriente e in Nord Africa le comunità ebraiche sefardite hanno vissuto pacificamente con i musulmani per millenni, senza essere confinate in ghetti, senza essere perseguitate, senza essere espulse.
E adesso i sionisti, parlando all’Occidente, adombrano la minaccia di un nuovo olocausto che gli arabi si preparerebbero a compiere. L’espressione « buttare gli ebrei a mare » è stata attribuita dalla propaganda sionista a Gamal Nasser. Di recente, William James Martin, dell’Università della Florida, si è preso la briga di andarsi a leggere tutti i discorsi ufficiali pronunciati da Nasser nella sua vita politica ed ha scoperto che questa frase non è stata mai pronunciata dal leader egiziano, mai, nemmeno nei suoi discorsi più infuocati. Martin ha scoperto, invece, che questa frase compare per la prima volta l’11 ottobre 1961 in un discorso di ….. David Ben-Gurion, allora Primo Ministro dello stato di Israele, il quale attribuisce questo intento ai suoi nemici. (Vedi: William James Martin, Who is pushing whom into the sea? Counterpunch, 11 marzo, 2005). Lo stesso intento genocida è stato, in seguito, attribuito ad Arafat e all’OLP. Nella carta dell’OLP, un tempo, compariva in realtà l’espressione « distruzione di Israele », questo avveniva prima che cominciassero le trattative di Oslo. Cosa stava a significare quell’espressione? Gli israeliani e gli americani lo sapevano bene ma finsero che quelle parole rappresentassero la volontà di un nuovo olocausto e quindi pretesero che fossero cancellate e che l’OLP riconoscesse il « diritto di Israele ad esistere » preliminarmente all’inizio delle trattative stesse. L’OLP accettò, e fu il più grande errore di Arafat e del suo partito Fatah. La vittoria di Hamas oggi è la conseguenza storica di questo errore. Eppure era chiaro quello che significava quell’espressione incriminata e i palestinesi cercarono più volte di spiegarlo all’Occidente. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. L’espressione « distruggere Israele » non voleva dire « buttare gli ebrei a mare ». Voleva dire ciò che diceva, cioè distruggere lo stato sionista per soli ebrei che Israele rappresentava e rappresenta. Nella carta dell’OLP lo stato sionista doveva essere sostituito con uno «stato democratico » per ebrei e palestinesi. In Sud Africa la distruzione dello stato razzista di apartheid dei soli bianchi non si è risolto nello « buttare a mare » tutti i bianchi. Oggi in Sud Africa, i neri, i bianchi, la popolazione di origine indiana e religione indù (vi è una discreta comunità indiana presso la quale soggiornò per qualche tempo lo stesso Gandhi), la comunità ebraica (circa 150 000 ebrei lituani) vivono in pace e costruiscono un’esperienza esemplare di società multirazziale, tollerante e concorde. Non è un caso che una delle prime decisioni di Nelson Mandela, presidente di questa vera democrazia multirazziale, sia stata quella di denuclearizzare il paese, rinunciando cioè alla bomba atomica e alla bomba H che il regime di Apartheid aveva costruito segretamente con Israele. E il Sud Africa sarà ancor di più, non c’è dubbio, un esempio per il mondo, man mano che il retaggio dell’apartheid verrà cancellato. Lo stesso era il programma dell’OLP per la Palestina. Questo è ancora il programma di una componente dell’OLP, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), questo deve essere il programma di tutti i veri democratici, altro che riconoscere il « diritto di Israele ad esistere ». Questo « diritto » di Israele si concretizza nel « non-diritto » dei Palestinesi a vivere liberi in uno stato democratico sulla loro terra; si concretizza nel « non-diritto » dei profughi a tornale nei villaggi e città dai quali furono cacciati nel 1948 e nel 1967. Eppure il diritto al ritorno dei palestinesi è sancito nella risoluzione 194, votata l'11 dicembre del 1948 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e confermata dal Consiglio di Sicurezza. Essa prevede il ritorno dei profughi del 1948 nei luoghi dove risiedevano prima della guerra. Stabilisce che ad ogni profugo sia garantito di poter scegliere se vuole o non vuole vivere all'interno dei confini di Israele. Il paragrafo 11 della risoluzione esplicitamente conferma il diritto dei profughi palestinesi che scelgano di usufruire del diritto al ritorno, di poter tornare « alle loro originali residenze e paesi dai quali sono stati allontanati durante la guerra ». Per coloro che scelgano di non avvalersi del diritto al ritorno, il paragrafo 11 prevede « indennizzi ». Il paragrafo 2 istituisce espressamente, presso le Nazioni Unite, la Commissione di Conciliazione per la Palestina (UNCCP), con sede a Gerusalemme, la quale ha il compito di far in modo che sia realizzato proprio quel diritto al ritorno. Israele si rifiuta di applicare quella risoluzione (come tante altre); non lo ha mai fatto e ha dichiarato che non lo farà mai. Perché? Perché se si realizzasse il ritorno dei profughi palestinesi nello stato di Israele, Israele non sarebbe più uno stato sionista, uno stato « ebraico », evolverebbe verso uno stato democratico multirazziale, un paese normale insomma. E’ di uno stato del genere che parlano ormai tanti ebrei antisionisti.
La novità è proprio questa, che adesso anche tanti ebrei, in Israele e fuori, sono giunti su questa posizione. Oltre a Bertell Ollman, vi sono lo storico e militante politico Lenni Brenner, lo scrittore e musicista Gilad Azmon, lo scrittore e giornalista Israel Adam Shamir, la scrittrice e giornalista Daphna Baram, il ricercatore Gary Zatzman, lo storico e professore universitario americano Norman Finkelstein, lo storico e professore universitario israeliano Ilan Pappe, lo scienziato Mordechai Vanunu, l’ex-sindaco di Gerusalemme Meron Benvenisti, il militante di sinistra l’israeliano Haim Hanegbi. Il regista israeliano Eyal Sivan, il filosofo francese Edgar Morin, lo scrittore e filosofo americano Michael Neumann, e poi i giornalisti e militanti o scrittori antisionisti Oren Ben-Dor, Ben Merhav, Noah Cohen, Noel Ignatiev, Yerach Gover, Jeff Blankfort, i giornalisti e editori del giornale on line ‘Israel Imperial News’, Akiva Orr, Shimon Tzabar, Moshé Machover, Tzivi Havkin, Rami Heilbron e tanti, tanti altri, senza dimenticare l’organizzazione religiosa ebraica di NatureiKarta. In Israele è stata fondata l’Associazione per un Solo Stato Democratico in Palestina/Israele.
Gli ebrei antisionisti si rendono perfettamente conto della strada pericolosa che ha intrapreso lo stato sionista di Israele, si rendono anche conto dei benefici che la Diaspora ha portato agli ebrei che, dopo l’Olocausto, hanno scelto di vivere fuori da Israele. Lo storico inglese Eric Hobsbawm, di origine ebraica, ha recentemente fatto notare che il contributo degli ebrei di Israele alla scienza, all’arte e allo spettacolo è piuttosto « deludente » mentre è di tutt’altro tenore quello degli ebrei della diaspora. Hobsbawm si chiede perché accade ciò. La causa, secondo lui è « la segregazione, vuoi del tipo precedente alla emancipazione, vuoi la segregazione dovuta alla scelta nazionalistica territoriale-genetica di Israele ». (Eric Hobsbawm, Benefits of Diaspora, London Review of Books, vol 27, n° 20, 20 ottobre 2005). Egli scrive:
Nella maggior parte del mondo [all’Olocausto] è seguita un’epoca di accettazione pubblica degli ebrei quasi illimitata, dalla scomparsa virtuale dell’antisemitismo e della discriminazione (…). E da conquiste ebraiche senza precedenti e paragoni nel campo della cultura, dell’intelletto e degli affari pubblici. Non vi è alcun precedente storico del trionfo dell’Aufklärung (illuminismo) della Diaspora del dopo Olocausto. Tuttavia, vi sono coloro che desiderano allontanarsi da questo trionfo per rinchiudersi nell’antica segregazione della religione ultra ortodossa e nella nuova segregazione di una separata comunità-stato etnico-genetica [Israele, ndt]. Se costoro dovessero aver successo io non penso che sarà una buona cosa per gli ebrei o per il mondo. (Ibidem)
Hobsbawm, riferendosi a Israele, usa l’espressione «separata comunità-stato etnico-genetica». È solo il pudore di un ebreo che non gli fa definire Israele per quello che esso effettivamente è. Hobsbawm non vuole essere troppo duro con lo stato sionista, per cui non lo chiama direttamente «stato razzista». La sostanza però è quella. Tuttavia dobbiamo essere grati allo storico inglese di aver puntualizzato il fatto che mentre gli ebrei della diaspora danno vita ad un trionfo dell’illuminismo ebraico che (in Occidente) non vi era mai stato prima, in Israele una minoranza sionista di ebrei si è caratterizzata come stato razzista di Apartheid. L’ultimo stato razzista del nostro tempo, aggiungiamo, e in più, uno stato espansionista, guerrafondaio, una reale minaccia alla pace mondiale. A questo ha portato il sionismo.
Poco dopo l’orrendo massacro della prima guerra mondiale un ebreo della dispora, Franz Rosenzweig, riflettendo sulle sanguinose responsabilità dei vari « nazionalismi » e « patriottismi » nella carneficina, esaltava il popolo ebraico proprio perché esso alla morta terra anteponeva i vincoli umani, proprio perché esso era l’unico popolo che non aveva una patria, una terra per cui uccidere e morire.
Attorno alla terra della patria – egli scrisse - scorre il sangue dei suoi figli; essi infatti non confidano in una comunità (…) che non sia ancorata al saldo suolo della terra. Noi soltanto (…) lasciammo la terra; così risparmiammo il prezioso succo della vita, che ci offriva garanzia della nostra stessa eternità e, unici tra tutti i popoli della terra, separammo il nostro elemento vitale da ogni comunanza con ciò che è morto. Infatti la terra nutre ma al tempo stesso lega. E’ la patria, in cui la vita di un popolo del mondo prende dimora e scava il suo solco nella terra, fin quasi a dimenticare che essere un popolo vuol dire anche qualcos’altro che non il semplice essere insediati in un paese, per il popolo eterno la patria non diviene mai sua in tal senso; a lui non è concesso incanaglirsi a casa propria, ma mantiene sempre l’indipendenza di un viaggiatore. (F. Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di G Botola, Casale Monferrato, 1985, p. 320).
I sionisti stanno tentando di fare del popolo ebraico un popolo che si deve « incanaglire » in casa propria (e neanche tanto « propria » in realtà) con tutte le conseguenze a cui il mondo, sbalordito, sta assistendo.
No allo stato sionista!
Per un unico stato democratico, pacifico, denuclearizzato e multirazziale di palestinesi ed ebrei in Palestina!
Febbraio, 2006
Mauro Manno
militante antimperialista.
[1] Bertell Ollman, « Lettera di dimissioni dal popolo ebraico », La Pensée Libre n° 7, 2005 (traduzione mia).